Gerarchizzazione del personale: la piramide del potere e delle retribuzioni

di Alessandro Palmi

La presente relazione è stata presentata al seminario I rischi dell’Autonomiaorganizzato da Cesp Bologna e Cobas Scuola Bologna il 3 aprile 2001. Viene qui riproposta senza sostanziali modifiche. (La redazione)

Per introdurre il tema intendo partire proponendo alla vostra attenzione alcune domande, non mi pongo l’obiettivo di fornire risposte esaustive, quanto di creare alcune premesse che possano essere utili per un ragionamento da sviluppare collettivamente:

  1. Come possono cambiare la qualità delle relazioni e la percezione del potere dopo l’entrata in vigore della cosiddetta autonomia scolastica?
  2. Quali significati possono assumere differenti strutture e dinamiche salariali?
  3. Che nesso esiste tra la struttura del salario e le relazioni interpersonali all’interno del sistema scolastico?
  4. Quali effetti possono avere gli elementi sopracitati sull’attività didattica?

Ritengo che possa essere utile porci questi interrogativi allo scopo di cominciare un percorso collettivo di riflessione riguardante alcuni importanti aspetti della vita lavorativa nella scuola che, pur essendo fortemente messi in discussione dall’insieme dei cambiamenti che stanno venendo avanti, non vengono affrontati in modo esplicito; per meglio dire, ai lavoratori della scuola non è mai stata data l’opportunità di confrontarsi apertamente su questi temi al di fuori dei corsi di aggiornamento ufficiali, che si configuravano come veri e propri momenti di indottrinamento acritico del “nuovo che avanza”.

Viceversa è importante produrre conoscenza in questi ambiti, in quanto è forte la possibilità di trovarsi di fronte a fenomeni che introducendo elementi di competitività, mettendo a rischio il principio della libertà di insegnamento, arrivino a mettere in discussione il senso ultimo del nostro lavoro a scuola.

Per proporre una prima risposta agli interrogativi vorrei, da un lato partire da alcune definizioni comunemente accettate (anche dal punto di vista semantico), dall’altro utilizzare una chiave di lettura tesa a porre l’accento su alcuni degli aspetti legati alle dinamiche relazionali; in quanto queste ultime rivestono una notevole importanza nel nostro lavoro sia in relazione ai rapporti tra colleghi sia nell’esplicarsi del lavoro didattico con il gruppo classe.

Per quanto concerne il primo interrogativo prendiamo come dimensione principale quella temporale, cioè cerchiamo di analizzare i cambiamenti possibili tra un prima ed un dopo l’entrata in vigore dell’insieme di “riforme” che stanno calando sul sistema scolastico.

Partiamo, innanzitutto, cercando di costruire una definizione condivisa di Potere:1

– Facoltà di compiere o meno qualcosa (sinonimo capacità).

– Facoltà di imporre il proprio volere ad altri, di influenzarne il comportamento (sinonimo dominio).

– Esercizio dell’autorità di governo di una data struttura o situazione (esercizio del potere…).

– Insieme di persone od organismo che esercita il governo (il Potere).

– Autorità specifica, legalmente riconosciuta attribuita a persone od organi particolari (potere di…).

– Capacità di produrre un determinato effetto posseduto da una persona (p. di persuasione ecc…).

Questi sono i significati che possono essere attribuiti alla parola potere (cui andrebbero aggiunti tutti i significati che il lemma assume quando è usato come verbo); in questa introduzione vorrei evidenziare in modo particolare due aspetti, quello del potere inteso come percezione personale (il sentimento del potere) unitamente all’aspetto qualitativo e relazionale del potere stesso.

Il sentimento del potere,2 in un contesto dato, nasce dall’incrocio di due variabili principali esprimibili come: “il potere che sento di avere sugli altri” ed “il potere che sento che gli altri hanno su di me”; questo potere può essere vissuto come una quantità a somma costante (se aumenta il mio potere diminuisce quello altrui) od a somma variabile (il mio potere può aumentare insieme a quello altrui). Il primo vissuto è tipico di un modello culturale3 basato sulla competizione, sull’obbedienza cieca e la dipendenza come valori, sul conflitto come patologia; il secondo prevede la collaborazione, il dissenso ed il consenso come valori ed il conflitto come risorsa.

Vediamo che tipo di potere e quali relazioni si giocassero nelle scuole (sia dal punto di vista formale che informale) prima l’introduzione della cosiddetta autonomia scolastica (premetto che per questioni di tempo mi concentrerò principalmente sull’insieme delle relazioni tra docenti, mentre sarebbero molto importanti anche le relazioni tra docenti ed altri soggetti come gli studenti o il personale ATA):

Dal punto di vista formale avevamo il preside (o direttore) il quale rappresentava il “potere ministeriale” nella scuola, in una qualche misura era il delegato, il referente funzionale di una autorità superiore che rimaneva comunque esterna alla particolare scuola; questo soggetto traeva ed esercitava il potere rispetto alla “norma”, limitandosi, formalmente, ad applicare regolamenti e circolari, non era infatti un soggetto atto alla negoziazione di tipo sindacale. Tutti gli altri dipendenti erano uguali, i collaboratori venivano votati dal Collegio e l’anzianità era l’unico elemento che differenziava la carriera retributiva (oltre all’inquadramento iniziale con cui si veniva assunti). Le principali relazioni di “potere” formale riguardavano il rapporto docente – collegio e docente – consiglio di classe, in questo campo il principio di libertà di insegnamento, fungeva da garanzia per il singolo in rapporto al soggetto collettivo.

Dal punto di vista informale la situazione era molto più variegata, stante la mancanza di strutturazione rigida nell’organizzazione del lavoro era proprio nell’informale che si ridefinivano i veri rapporti di potere e le vere modalità di funzionamento relazionale; le quali risultavano essere anche molto diverse da scuola a scuola, ma comunque riconducibili ad un quadro normativo unico per tutte le scuole. Le fonti del potere nascevano ad esempio:

– Dall’autorevolezza personale del singolo.

– Dal tipo di materia insegnata in relazione al tipo di scuola (pensate al docente di lettere in un liceo classico od in un istituto professionale).

– Dall’anzianità interna alla singola scuola.

– Dal tipo di inquadramento (ITP, sostegno, precari ecc…).

– Dall’appartenenza o meno a lobby od altri gruppi informali.

Questa non coincidenza tra le fonti del potere agito nelle relazioni e la struttura organizzativa formale generava tutta la serie di situazioni che si potevano incontrare nelle varie scuole (senza voler esprimere un giudizio di valore).

Il quadro si modifica sostanzialmente con l’entrata in vigore dell’autonomia e correlati:

– Nasce la figura del Dirigente Scolastico (DS), questo soggetto dovrebbe possedere ora un potere reale da agire anche direttamente sui “sottoposti” (non è un caso che molta della polemica attuale e molte proposte di varie parti politiche vertano proprio sulla quantità e qualità di potere da delegare ai DS). Basti considerare il fatto che adesso diventa titolare di relazioni sindacali, nomina direttamente i suoi collaboratori…

– Si introducono nuove figure (p.e. funzioni obiettivo, FO) o si cambiano le caratteristiche di figure preesistenti (come detto per i collaboratori). Dal punto di vista informale queste figure sono ancora in via di definizione, basti pensare alla varietà di modi in cui vengono percepite le FO nelle differenti scuole; questo ritengo sia un’area molto interessante da esplorare e su cui riflettere a 360°.

– Vengono preparati piani di modifica degli Organi Collegiali (OO.CC.), l’operazione per ora non è andata in porto in Parlamento, ma è comunque interessante leggere le proposte di modifica anche in funzione di quanto detto.

– Si comincia ad agire sulla leva salariale per modificare la struttura organizzativa e relazionale delle istituzioni scolastiche; in realtà questo percorso è iniziato ancor prima dell’introduzione formale dell’autonomia, infatti può essere letta in questo senso l’introduzione di meccanismi di “salario incentivante” in atto da vari contratti scuola.

Questo ultimo punto ci collega direttamente alla domanda b). Prima di entrare nel vivo voglio proporvi alcune definizioni legate al salario ed alla politica retributiva in genere, ritengo che sia utile in quanto non è fatto mistero dell’intenzione di equiparare sempre più il rapporto lavorativo nella scuola a quello “classico” presente nell’azienda genericamente intesa; non dobbiamo dimenticare che il processo di privatizzazione ed aziendalizzazione della scuola è uno degli obiettivi rivendicati (anche se con termini diversi, questo aspetto sarà, a sua volta, oggetto di una successiva relazione) dell’intero corpus di riforme e segnatamente la privatizzazione del rapporto di lavoro è un percorso già intrapreso, basti pensare al fatto che la trattativa nazionale è svolta dal ministero attraverso l’ARAN.

Citando testualmente da un manuale di gestione del personale:4

La politica retributiva si può sintetizzare attraverso 3 parametri:

1) Il livello della retribuzione (il saggio di retribuzione che l’impresa decide di pagare).

2) La struttura della retribuzione (ammontare delle retribuzioni in relazione alle posizioni ed inquadramenti lavorativi).

3) La dinamica della retribuzione (rappresenta la parte politica della retribuzione, che definisce le variazioni salariali nel tempo).

I principali obiettivi di un meccanismo di variabilità retributiva interna sono:

a) Controllo del comportamento.

b) Gestione del conflitto.

c) Motivazione dei lavoratori.

d) Attuazione e consolidamento della strategia aziendale.

Leggendo queste definizioni si comprende abbastanza bene come inquadrare le varie proposte di differenziazione salariale avanzate nel tempo, dal fondo incentivante al defunto concorsaccio.

In termini relazionali vorrei mettere l’accento su alcuni elementi legati ai significati che possono assumere diverse strutture e dinamiche salariali:

1) Il danaro è uno dei fondamentali parametri di status riconosciuti dal modello culturale dominante, istintivamente può scattare l’equivalenza più danaro più potere; se si osservano le dinamiche relazionali (in particolare quelle informali) ed anche la consistenza salariale dei diversi inquadramenti si trova che questa implicita equivalenza è sostanzialmente rispettata.

2) Allo stesso tempo questo elemento è fonte di contraddizione, perché, una volta garantita una soglia di soddisfazione minima dei bisogni, il semplice incentivo economico non è più sufficiente.

3) Nel caso specifico della scuola siamo di fronte ad una consistenza davvero scarsa, dal punto di vista quantitativo, di tali incentivi. Però pensiamo ai conflitti, alle tensioni, al disgusto che la divisione di queste cifre provoca nel sistema scuola… Questo dipende dal fatto che il salario è stato trasformato in una risorsa scarsa, anche nella percezione individuale (oltre che dal punto di vista quantitativo); il concetto di scarsità connota fortemente il salario in termini di competitività, invidia (tutti concetti legati ad un certo tipo di potere) e dà un senso nuovo all’incentivo (in particolare diviene importante, oltre alla sua consistenza, il fatto che “io lo prendo e tu no”).

Correlato a questo alcuni spunti più direttamente legati al terzo interrogativo:

a) Come accennato è forte il rischio di promuovere una forte competitività tra docenti

b) In particolare ricordiamo il defunto concorsaccio; nonostante tutto lo sproloquio sul concetto di valutazione e merito (mettendo da parte in questo momento considerazioni al riguardo), dobbiamo svelarne un aspetto importante, la proposta dell’art. 29 non era un sistema per valutare merito o capacità professionali, era un sistema per valutare il grado di adesione al modello proposto ed il grado di fedeltà all’istituzione riformata.

c) Questo è un elemento fondamentale da tener sempre presente anche di fronte alle autocritiche di moda adesso; va rivalutata il valore della vittoria contro l’art.29 come elemento di sconfitta anche culturale di un certo modello, come rigetto di un tentativo di introdurre una dinamica salariale che doveva fungere come elemento di controllo ed omologazione alla cultura aziendale.

d) Come detto sopra andrebbe (può essere un tema di lavoro importante per il futuro) indagato a fondo quello che sta succedendo alle FO.

e) Viene favorito lo svilupparsi di pratiche tese ad inventare progetti per giustificare l’assegnazione di fondi alla scuola e per gestirne la spartizione in termini di salario individualizzato (come ben illustrato nell’ultimo numero del giornale dei Cobas scuola)5.

Relativamente all’ultimo interrogativo, cercando di riflettere su possibili ricadute didattiche

– Se diviene dominante una cultura legata alla competitività, questo elemento si trasferirà anche a livello della relazione con gli studenti? Direi sicuramente di sì, occorre capire in che forma e quali conseguenze provocherà.

– Se diviene dominante un modello di riferimento aziendale per la scuola (la cui merce sarà giocoforza l’istruzione), come si potrà/dovrà agire per mantenere uno spazio indipendente alla scuola, cioè tentare di proporre una scuola che non lavori per un semplice adeguamento al modello sociale dominante di chi la frequenta; ma al contrario si ponga l’obiettivo di andare oltre una semplice trasmissione delle conoscenze per arrivare ad una costruzione condivisa dei saperi anche in funzione critica.

– La didattica modulare è legata in maniera indissolubile a tutto quanto detto, questo particolare aspetto sarà approfondito in una relazione dedicata.

– Con la logica della dinamica salariale legata a fattori di selezione tra il personale, viene messo in crisi un aspetto fondamentale nel lavoro didattico collegiale: la sua gratuità, ossia il fatto che le esperienze, i materiali, le innovazioni didattiche vengano liberamente condivise, se questi elementi diventano un potenziale elemento di progressione di carriera cominceranno ad essere gelosamente custoditi.

– Ci potranno essere forti elementi di demotivazione da parte di chi (per svariati motivi) si sentirà estraneo al nuovo modello, sia vivendo una condizione di potuto in relazione alle nuove dinamiche relazionali sia per un forte rigetto dovuto ad inconformità culturale.

– Da tutto questo potrà nascere un cambio di senso del lavoro didattico, portando ad una scuola culturalmente debole rispetto all’esterno.

A questo punto pensiamo al che fare. E’ sicuramente importante innescare un meccanismo di analisi e discussione che si ponga l’obiettivo di costruire conoscenza in questi ambiti, che tenda a prefigurare un nuovo modo di fare scuola passando, come dicevo sopra, dalla trasmissività attualmente imperante a percorsi di costruzione condivisa dei saperi; senza però cadere negli imbrogli delle attuali pseudo-riforme che, come dato principale, sottintendono l’asservimento della scuola pubblica alle logiche del mercato, mentre sbandierano obiettivi di grande innovazione e modernità.

In particolare si possono ipotizzare alcune linee principali di lavoro/riflessione:

– Manifestare in ogni occasione la non condivisione di un linguaggio aziendale, contestare l’uso di termini legati ad una “cultura dell’impresa”. Organizzare una sorta di “resistenza semantica”.

– Cercare di mettere a punto strumenti per operare, che possano essere utilizzati nelle scuole (schemi di POF…).

– Approfondire gli aspetti relativi alla struttura ed alla dinamica salariale; rendere esplicite e condivise, per la maggior parte dei lavoratori della scuola, le principali implicazioni, entrare nel merito della distribuzione.

– Raccogliere dati ed esperienze sulla questione relativa alle FO, per capire cosa sta succedendo nella realtà delle scuole in relazione a questo elemento.

Note:

Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Giunti2000.

2 E. Spaltro, Il sentimento del potere, Boringhieri 1984.

Ibidem.

4 G. Costa, Manuale di gestione del personale, UTET, 1992.

5 Cfr. P. Bernocchi, Cancelliamo la controriforma, “Cobas- giornale dei comitati di base”, n. 8, marzo-aprile 2001. 

Quaderno CESP n. 1. La scuola: prove di resistenza
Atti del seminario di auto-aggiornamento tenuto il 16 maggio 2002 presso l’ITIS Belluzzi di Bologna.
A cura di Gruppo Scuola del Bologna Social Forum e CESP – Centro Studi per la Scuola Pubblica, Bologna

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