di Luca Castrignanò
Si riporta senza modifiche sostanziali una relazione preparata per l’anno di formazione 2001-02 a commento del modulo Relazioni e conflitti – La relazione docenti-dirigente di Gregoria Cannarozzo. Pur non prodotta per questo volume, la riflessione ci è parsa particolarmente utile e interessante. (La redazione)
L’analisi di Cannarozzo parte dalla problematizzazione della relazione dirigente-docenti all’interno delle trasformazioni del sistema scolastico prodotte dall’Autonomia scolastica.
Il rapporto dirigente-docenti è preliminarmente definito come relazione istituzionale nel senso che gli elementi normativi che definiscono i ruoli rispettivi assumono un’importanza determinante rispetto agli elementi più generalmente intersoggettivi che caratterizzano ad esempio la relazione docenti-alunni in classe. Gli ambiti del conflitto nella scuola dell’autonomia sono schematicamente riassunti su tre livelli: quello del rapporto scuola-società (il cosiddetto rapporto con il territorio, strutture produttive, servizi, enti locali), quello dell’organizzazione interna del sistema scuola e quello delle interazioni tra le persone coinvolte. L’assunto di fondo che attraversa l’analisi di Cannarozzo è che il conflitto sia una forma di relazione costitutiva delle dinamiche degli insiemi organizzati di persone e in quanto tale non abbia nulla di patologico e non rappresenti qualcosa da rimuovere. Al contrario, la capacità di gestire in modo aperto l’emergenza di situazioni conflittuali cogliendo in esse uno stimolo e una possibilità di continuo ripensamento e riassestamento delle dinamiche relazionali, costituisce la migliore garanzia per il miglioramento della qualità del servizio e della professionalità. Per questo in primo luogo il conflitto va nominato, reso manifesto come elemento essenziale di cui farsi carico, evitando il rischio di determinare una situazione di ansia generalizzata e incontrollabile che facilmente si associa alle dinamiche di conflitto nascosto.Come ricordato in apertura il tema del conflitto deve essere calato nella situazione scolastica mutata per effetto della legge sull’autonomia e del conferimento dello statuto di dirigenti ai “vecchi” presidi. La posizione dell’autrice, ampiamente condivisibile per quanto si riferisce alla trattazione generale del problema del conflitto risulta invece molto poco convincente in riferimento alla scuola dell’autonomia di cui accetta in modo acritico i presupposti teorici e di cui ripete le enunciazioni di principio sulla necessità di cooperare e mettere insieme le diverse competenze di insegnanti e dirigenti ovvero delle diverse funzioni dell’amministrare, del governare e del fare didattica. Ai docenti insomma viene ripetuto il solito ritornello: “Siete voi i protagonisti del cambiamento, senza la progettualità di ognuno non si costruisce l’autonomia della scuola”. E’ possibile obiettare che questa centralità e questo protagonismo sono proclamati proprio perché la riforma della scuola ha prodotto una forte rivisitazione del concetto di libertà di insegnamento, sottraendola alla dialettica tra singolo insegnante e istituzione pubblica per ridefinirla al livello della singola istituzione scolastica, la scuola autonoma appunto. L’insegnante insomma abituato a percepire la propria identità come insegnante di una scuola pubblica e pluralista estesa su tutto il territorio nazionale che lasciava ampio spazio alle differenze individuali si vede ora riposizionato all’interno dell’istituzione scolastica di appartenenza come luogo prioritario di identità. Il suo compito è quello di definire alcuni tratti di questa identità attraverso la stesura del POF, nella consapevolezza che ciò che fa l’identità della sua scuola è insieme ciò che la differenzia dalle altre. E’ un meccanismo di concorrenza insomma che evidentemente costringe a rivedere, insieme all’identità docente, anche la qualità delle relazioni tra docenti della stessa e di altre scuole. Ciò che c’è di nuovo e che occorrerebbe nominare in una analisi del terreno di conflittualità specifico prodotto dall’autonomia, è la sovradeterminazione delle scelte didattiche da istanze superiori che sono appunto quelle legate al funzionamento della scuola-autonoma. I vincoli sono certamente aumentati rispetto al sistema del passato, perché la definizione del progetto di istituto ha assunto valenze vincolanti relativamente ai tempi, modi e contenuti del fare scuola. In aggiunta è stata introdotta una rappresentanza sindacale di scuola (RSU) proprio per definire dei protocolli con la controparte (contratto d’istituto) che regolino gli aspetti più specifici del funzionamento della scuola. Tra le competenze specifiche del dirigente, Cannarozzo sottolinea le abilità di gestire i rapporti tra le varie componenti della scuola (docenti, ATA, studenti, genitori) che costituiscono “terreno di coltura per suscitare consensi e positività”. Il dirigente modello è quello che gestisce il potere con l’autorità necessaria ad assicurargli un consenso allargato e ad evitare il prodursi di “processi intergruppali, fonte di conflittualità”. In altri termini se il problema del consenso è centrale per il governo della scuola dell’autonomia allora quale via migliore della partecipazione diretta degli interessati?: “Non funzioni delegate una volta per tutte, ma docenti soggetti dei processi di cambiamento e di valorizzazione delle differenziazioni organizzative. La responsabilità sarà collettiva e il dirigente coordinerà le competenze”. Una volta stabilita la struttura da riempire, una volta stabilito cioè che il lavoro in classe non è l’unica prerogativa dei docenti, una volta definite e assegnate funzioni diverse, di tipo direttivo-organizzativo, che seguono il modello aziendale dello “staff” di collaboratori producendo una stratificazione gerarchica del personale, una volta stabilito che il capo di istituto non è più primo fra pari, ma dirigente, si chiede ai docenti di partecipare, di riempire l’organigramma in modo consensuale. Cosa succederebbe se a questo punto i “protagonisti del cambiamento” rifiutassero di aderire al modello proposto rifiutando di contribuire alla definizione di una pseudo-identità aziendale contrapposta a quelle di altre scuole, di produrre modelli di uniformità didattica che mortificano la libertà di insegnamento in nome del progetto educativo dell’istituto? Cosa succederebbe cioè se continuassero nella strada intrapresa, ad un livello diverso, con il rifiuto della differenziazione salariale contenuta nel famigerato art.29 dell’ultimo CCNL? Il termine conflitto con le sue valenze positive potrebbe a buon diritto essere utilizzato per descrivere questa situazione, ma certo un’ipotesi di questo tipo non è contemplata nel quadro dell’analisi proposta da Cannarozzo che circoscrive preventivamente l’ambito di senso dei conflitti della scuola precludendo la radicalità delle istanze che mettono in discussione il progetto politico che ha prodotto la riforma.Anche la fotografia dell’esistente proposta nel corso risulta riduttiva proprio per una insufficiente trattazione dei cambiamenti specifici in atto nelle scuole che coinvolgono direttamente quella che l’autrice definisce l’ “area delle interazioni”. Ma come è possibile porsi il problema del conflitto nell’ambito scolastico senza nemmeno nominare i processi di differenziazione di compiti e di retribuzione che stanno avvenendo? Ciò che crea differenza costituisce un potenziale di rivalità e concorrenza; si può pensare che un modello differenziante sia più o meno adeguato a costituire l’ambiente di lavoro delle scuole, ma non è possibile non nominare gli effetti che ciò produce sul piano delle relazioni.
Molti degli argomenti riportati sulla complessità sistemica delle relazioni all’interno dell’ambito scolastico sono per altro del tutto condivisibili, si tratta però di osservazioni solo in minima parte circoscrivibili al contesto scuola e valide piuttosto per ogni tipo di gruppo. Il dubbio di fondo tuttavia è forse di tipo epistemologico, riguarda cioè la pregnanza di una analisi a predominanza psico-sociale nella descrizione dei fenomeni in oggetto. Molto spesso l’uso di schemi concettuali accattivanti che funzionano efficacemente per rendere conto delle dinamiche interpersonali finiscono per offuscare se non travisare le interazioni all’interno di un luogo istituzionale dove vigono ruoli di potere definiti. Per fare un esempio l’idea che l’avversione al cambiamento costituisca una forma di rigidità “patologica” che blocca l’interazione comunicativa mi sembra del tutto inadeguata a rendere conto del modo in cui avvengono importanti cambiamenti istituzionali. A questo livello le domande che si pongono non sono su cambiamento-non cambiamento, valutazione-non valutazione ecc., ma piuttosto su quale cambiamento, quale valutazione e, in definitiva, su quale idea di scuola ci convince e coinvolge. In altri termini si tratta di riconoscere che viviamo in orizzonti linguistico-comunicativi già esistenti, che ci determinano e in cui assumiamo una posizione. Negli ultimi decenni si è imposta la visione di ciò che è statale come parassitario, burocratico e inefficiente e, in alternativa, del privato come qualità, efficienza, flessibilità; da questo punto di vista è evidente che l’analisi del sistema scolastico e le riforme proposte non hanno seguito un percorso originale ma si sono adattate ad contesto culturale ben più esteso. Se il contesto è determinante per definire il piano della conflittualità oggi non possiamo prescindere dal contesto politico culturale in cui sono avanzati gli assunti organizzativi che hanno definito la scuola in cui viviamo. I principi di una politica del benessere enunciati nel finale da Cannarozzo possono ancora una volta essere condivisi, chi non vorrebbe infatti “un clima aperto in cui accogliere e essere accolti”, una “mentalità del potersi parlare”? Ma proprio per questo dobbiamo chiederci quale scuola vogliamo. Se il modello che ci è stato proposto nel nome dell’autonomia sia veramente un luogo di cooperazione e non piuttosto un modo di organizzare il contesto scuola in funzione di interessi estranei alla scuola e di valori molto lontani dallo quello scambio gratuito e da quella collaborazione che costituiscono il sale del lavoro intellettuale e della scuola pubblica.
Quaderno CESP n. 1. La scuola: prove di resistenza
Atti del seminario di auto-aggiornamento tenuto il 16 maggio 2002 presso l’ITIS Belluzzi di Bologna.
A cura di Gruppo Scuola del Bologna Social Forum e CESP – Centro Studi per la Scuola Pubblica, Bologna
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