Quaderno Cesp-Bologna n. 3 – Marzo 2003

Materiali su Paulo Freire

Testi di Carlos Rodrigues Brandao, Piera Bettin, Silvia Oliveri, Massimo Zerbeloni

a cura di Alessandro Palmi

INDICE

  • Redazione Cesp Bologna Omaggio a Freire
  • Alessandro Palmi Il messaggio di Paulo Freire: tra passato e futuro, tra “Nord” e “Sud” del mondo
  • Redazione Cesp Bologna Cenni biografici
  • MST Ai piccoli Sem Terra
  • MST Glossario
  • Carlos Rodrigues Brandao Storia di Paulo Freire, il bambino che leggeva il mondo
  • Piera Bettin, Silvia Oliveri, Massimo Zerbeloni Metodo partecipato nel lavoro di comunità. Lincidenza pedagogica dei rapporti di potere
  • Piera Bettin, Silvia Oliveri, Massimo Zerbeloni Un’esperienza: L’occupazione delle scuole elementari “D. Romagnoli” di Bologna contro la riforma Moratti e l’aziendalizzazione della scuola
  • Gli autori
  • Chi è Carlos Rodrigues Brandao

Il racconto di Carlos Rodrigues Brandao, che ringraziamo, è stato tradotto dal portoghese da Marta Gomes e Roberto Casalini, coordinati da Remo Marcone.

I disegni che accompagnano l’esperienza delle scuole elementari “Romagnoli” sono di Gemma Reggimenti. L’esperienza delle scuole Romagnoli è solamente accennata nella presente versione-web del Quaderno Cesp.


Omaggio a Freire

Questo quaderno CESP, il terzo dalla nascita della collana di pubblicazioni, è dedicato a Freire, il grande pedagogista militante brasiliano scomparso pochi anni fa. Vari materiali compongono un puzzle di suggestioni, di ricordi e di analisi che ci guida attraverso la “pedagogia dell’oppresso”, le sue varianti e le diverse applicazioni.
Alessandro Palmi ci introduce al pensiero di Freire proponendone dapprima una lettura nella temperie culturale e sociale dell’America Latina e quindi tentando una riflessione sull’utilità che ne possiamo trarre nella pratica educativa quotidiana del Nord sviluppato del mondo.
A questo segue la traduzione, inedita, del racconto Historia do menino que lia o mundo di Carlos Rodrigues Brandao, uscito nel 2001 sul numero 7 di “Fazendo Historia”, pubblicazione del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra – MST.
Brandao, ricercatore e poeta, ha operato e tuttora è attivo nei movimenti e nelle esperienze di educazione popolare E’ stato molto vicino a Paulo Freire e oggi ne continua e arricchisce il lavoro giorno dopo giorno.
Questo racconto è stato scritto per essere letto collettivamente, negli spazi comuni in cui l’educazione popolare ha saputo trovare le proprie aule sociali. Proponendolo ai lettori italiani, estendiamo l’invito del Collettivo nazionale degli educatori e delle educatrici del Mst a “sedersi in circolo, ben comodi, per terra o nel vostro banchetto e a cominciare la lettura, per tutti quelli che stanno ad ascoltare”. E’ un invito che parte da San Paolo ma che può far crescere chiunque si senta legato da intima solidarietà verso gli ideali e le lotte dei Sem Terra per un futuro di dignità e giustizia. Leggendo queste pagine si percepisce lo sguardo e l’attenzione di chi, giorno per giorno, cresce su queste parole nelle terre brasiliane. Ovviamente a noi “lettori occidentali” è richiesto un supplemento di sforzo per comprendere aspetti che risultano scontati solo a chi vive in luoghi esclusi dai dividendi della globalizzazione capitalista.
Il terzo testo è la sintesi dell’intervento al convegno milanese di studi su Freire dello scorso anno nel quale un gruppo di insegnanti e ricercatori ha operato e ragionato sui rapporti di potere connessi alla pratica pedagogica. L’intento è quello di “appropriarsi degli elementi di base che, a partire dalla pedagogia freiriana, hanno ispirato, diventando patrimonio comune, l’intervento di comunità, nei suoi aspetti metodologici, come pratica di promozione del benessere sociale”.
L’esperienza umana da cui ha preso spunto la riflessione degli studiosi e dei partecipanti alla ricerca-azione è stata quella dell’occupazione della scuola elementare “Romagnoli” di Bologna realizzata lo scorso anno in occasione delle contestazioni contro la riforma Moratti e l’aziendalizzazione della scuola pubblica. Una contestazione che è nata e si è sviluppata in pieno spirito di “comunità”, gestita insieme da lavoratori della scuola, genitori e bambini e che accanto ai momenti di festa e di confronto politico è stata caratterizzata dall’impacchettamento dell’edificio scolastico nello stile dell’artista contemporaneo Christo.
Le immagini di questa esperienza (alcune fotografiche, altre riprodotte dalla penna di Gemma Reggimenti) compongono quindi il quarto testo, unitamente alle “parole generatrici” che hanno ispirato, attraverso l’evocazione, i lavori di gruppo dei partecipanti al convegno secondo il metodo “Pratica – Riflessione – Azione” e che qui riproponiamo ad evocare altri percorsi nei lettori del Quaderno Cesp.
Redazione Cesp Bologna


Il messaggio di Paulo Freire: tra passato e futuro, tra “Nord” e “Sud” del mondo

di Alessandro Palmi

In questa breve presentazione della figura di Paulo Freire, cercheremo di “far parlare” soprattutto lui stesso, quindi molto spesso saranno le sue parole testuali a darci un’idea del suo pensiero, profondamente rivoluzionario.
Riteniamo che il messaggio di Freire pur provenendo da un mondo così diverso dal nostro, rappresenti un formidabile contributo per chiunque sia convinto che la funzione “dell’educare” sia qualcosa che vada molto al di là della semplice trasmissione di conoscenze già stabilite e consolidate. Chiunque consideri l’insegnare (e l’imparare) come una parte fondamentale dell’avventura della vita, una possibile esperienza creatrice ed uno delle azioni potenzialmente più “liberatrici” non può prescindere dal pensiero di questo grande personaggio.
L’educazione è un atto d’amore e perciò un atto di coraggio.
Non si può avere paura del dibattito, dell’analisi della realtà.
Non si può sfuggire alla discussione creatrice,
se non si vuole trasformare tutto in una farsa. (Paulo Freire)
Paulo Freire è considerato il fondatore di quella pratica pedagogica che va sotto il nome di “Educa-zione Popolare”; questa nasce agli inizi degli anni 60 in Brasile dall’esigenza di “dare la parola al popolo” contrastando la pesante eredità lasciata dal colonialismo portoghese alle masse brasiliane, cioè la “cultura del silenzio” fatta di apatia e non-partecipazione.
In una società chiusa, guidata e depredata dal mercato esterno, oggetto e non soggetto di sé stessa, antidemocratica, il popolo si trovava “immerso” nei processi sociali, inesistente perché incapace di prendere decisioni, ormai assuefatto alla manipolazione, ad essere dominato. Una società a cui è negato il dialogo, la comunicazione, ma che riceve “comunicati” dal potere costituito non può che dare origine al “mutismo”; che non significa mancanza di risposta, ma una risposta a cui manchi lo spirito spiccatamente critico1.
Freire ed i suoi collaboratori pensavano ad un’educazione che non significasse mero trasferimento del sapere attraverso le nozioni, ma che fosse per se stessa un atto creativo, capace di generare altri atti creativi, che affrontasse la discussione con l’uomo comune rispetto al suo diritto alla partecipazione, al potere, che tentasse costantemente di cambiare gli atteggiamenti muti verso la vita, che potesse costruire una mentalità democratica. Quindi ignoranza considerata non solo analfabetismo, ma anche inesperienza alla partecipazione e incapacità di essere critici, incapacità di intervenire.
Essi pensavano che quello di cui aveva bisogno il popolo brasiliano fosse un’educazione alla decisione, alla responsabilità sociale e politica, che l’educazione dovesse rendere possibile la discussione coraggiosa dei problemi, la presa di coscienza e la forza di lottare contro gli oppressori.
Purtroppo il Movimento di Educazione Popolare (MEP) non potè raggiungere la realizzazione del suo programma su scala nazionale (nonostante alcuni entusiasmanti risultati iniziali) a causa del colpo di stato del 1964, dopo il quale iniziò la repressione del movimento, Freire fu costretto all’esilio ed il movimento dovette continuare a lavorare nella clandestinità.
I gruppi reazionari si sentivano minacciati dal cambiamento di mentalità che stava avvenendo, mentalità che rifiutava l’assistenzialismo in quanto questo fa di colui che lo riceve un soggetto passivo, incapace di partecipare al suo stesso recupero2; ma che rivendicava il diritto di partecipare attivamente al processo storico. Il MEP rappresentava una minaccia per un sistema politico ed elettorale che prevedeva e si poggiava sull’esclusione degli analfabeti al voto e quindi dell’esclusione della maggior parte della classe popolare.
Dal punto di vista della pedagogia della libertà preparare la democrazia significava anche preparare l’analfabeta a diventare elettore e questo avvenne non solo a livello teorico. Una grossa fetta di appartenenti alle masse ad esempio si inserì, a seguito di un processo di alfabetizzazione, in attività sindacali per la lotta in difesa dei propri interessi e degli interessi dei lavoratori, la prima candidatura di Lula alla presidenza è, almeno in parte, debitrice a questo processo, così come lo è la sua recente elezione, che tante aspettative ha spalancato.
La pedagogia della libertà fu accusata di portare in sé lo stimolo alla rivolta; ciò risulta senz’altro vero, ma è importante sottolineare che la rivolta non è in sé un obiettivo perseguito dall’educazione popolare. Se la coscientizzazione favorisce l’espressione delle insoddisfazioni e dei bisogni sociali significa che questi sono le componenti reali di una situazione di oppressione.
L’alfabetizzazione e la coscientizzazione sono inscindibili, così qualsiasi apprendimento ed addestramento (dall’imparare a scrivere al saper utilizzare un dato strumento agricolo) deve essere legato alla presa di coscienza della situazione reale dell’educando; quindi riflessione ed azione (cioè prassi, se il sapere che ne deriva si fa oggetto di riflessione critica). Questo procedimento rappresenta lo stimolo attraverso il quale l’alfabetizzando apprende criticamente la necessità di imparare a leggere e scrivere e si prepara ad essere l’agente di questa educazione.


Per una pedagogia degli oppressi

Agli straccioni del mondo e a coloro che in essi si riconoscono e così
riconoscendosi con loro soffrono ma soprattutto con loro lottano.

(Paulo Freire)

Secondo Freire il grande compito umanista e storico degli oppressi è liberare sé stessi ed i loro oppressori, dato che questi ultimi, esercitando violenza ed oppressione, non trovano nel loro potere la forza che liberi gli oppressi e loro stessi. Il potere che nasce dalla debolezza degli oppressi sarà invece abbastanza forte per liberare sia gli uni che gli altri. Chi più degli oppressi può capire cosa significhi una società che opprime?3
La coscientizzazione ha come punto di partenza l’uomo (brasiliano), l’uomo illetterato, l’uomo del popolo, con la sua maniera propria di percepire e di comprendere la realtà.4
Queste parole di P. Freire mostrano come tutta la sua azione educativa e la sua riflessione trovino fondamento nella vita quotidiana del popolo: il suo lavoro, la famiglia, la vita nelle periferie. Ciò che qualifica questa azione con le masse popolari è la “maniera di essere vicini” al popolo, infatti questa vicinanza non deve essere alimentata da una falsa generosità, ma da una autentica fiducia: credere, aver fede nel popolo è la premessa indispensabile per ogni azione veramente educativa e liberante.5 Su questa categoria primaria si fonda ogni processo educativo: L’educando è il protagonista del processo educativo, altrimenti stiamo parlando di oppressione educativa che, quindi, non è educativa.6 Se il punto di partenza è in noi, i cosiddetti intellettuali, non c’è alternativa se non quella dell’autoritarismo.7
La pedagogia di Freire è uno dei primi contributi ad un’azione educativa che non vuole più interpretare l’interesse delle classi popolari, osa domandare loro quale sia il loro modo di esprimersi nel mondo, quale sia la loro parola; ribaltando il fatto che fino a quel momento la parola che interpretava il mondo popolare era quella degli intellettuali, anche se impegnati a favore della causa del popolo. Da qui un significato profondo, tuttora valido, del termine “popolare”, l’educazione si dice popolare non solo perché rivolta al popolo, perché creata e vissuta dal popolo stesso.
Dal punto di vista educativo, la classe lavoratrice ha due diritti fondamentali:
Conoscere meglio quello che già si conosce a partire dalla pratica (nessuno può negare che le classi subalterne possiedano un proprio sapere, uno dei compiti dell’intellettuale rivoluzionario è precisamente rendere possibile, stabilendo una comunione del metodo con le classi subalterne, che esse rivedano o riconoscano il già noto in un modo migliore).
Conoscere ciò che ancora non si conosce, cioè partecipare alla produzione di nuova conoscenza (per poter contribuire occorre avere il diritto di produrla, la classe lavoratrice deve dare la sua opinione in proposito e deve anche poter decidere).
Nella relazione tra sapere e cultura popolare e quella d’élite intellettuale sta uno degli snodi fondamentali della concezione freiriana; emerge chiaro che non c’è conoscenza “migliore”, più dignitosa e più meritevole di essere ricordata e trasmessa, così come non esiste nessuno più colto di un altro.8 Questa stessa dicotomia è un prodotto dell'”oppressore”, dell’intellettuale che si crede superiore al popolo: Nessuno ignora tutto. Nessuno sa tutto. L’assolutizzazione dell’ignoranza, oltre ad indicare una coscienza ingenua circa l’ignoranza ed il sapere, diventa uno strumento nelle mani della coscienza dominatrice che vuole manipolare i cosiddetti “incolti” che “incapaci di guidare sé stessi”, hanno bisogno di orientamento, di guida, di essere condotti da quelli che si considerano colti e superiori.9
Prassi come teoria dell’azione
Non è il discorso forte che importa. Lavoriamo di più e parliamo di meno.
Dedichiamoci ad un lavoro paziente di mobilitazione ed organizzazione popolare, che non si fa sulla base di discorsi veementi, ma su una pratica profonda che si concede docilmente ad una quotidiana riflessione critica (Paulo Freire)
Negli anni sessanta, in un clima di grandi passioni e fermenti politici, dove vengono lanciati grandi slogan, dove i discorsi “gridati” favoriscono una “visione magica delle parole d’ordine”, Freire riflette e denuncia l’illusione di riuscire a cambiare la realtà, a “liberare l’oppresso”, a coscientizzare il popolo con la pura parola, non accompagnata da una pratica coerente.
Egli afferma la necessità di entrambi questi momenti che, presi singolarmente, sono sterili, non aiutano l’uomo a diventare soggetto, non appartengono ad una educazione che sia autenticamente liberatrice. Il verbalismo è un “vuoto bla-bla”, valorizza solo la parola e la teoria; l’attivismo invece è proprio di chi tende all’azione senza la guida della riflessione, è sempre reazionario, ama gli slogan, crede che la storia sia opera delle proprie mani; entrambi questi estremi, presto o tardi, si bloccano, non arrivano alla prassi, alla sintesi tra teoria e pratica, tra azione e riflessione. Soltanto nella prassi, infatti, l’uomo diventa soggetto, si umanizza; questa riflessione sull’azione è ciò che distingue l’uomo dall’animale: Gli uomini sono esseri di prassi, sono esseri del “che-fare”, mentre gli animali sono esseri del puro fare. Gli animali non “vedono” il mondo, vi si immergono; gli uomini, al contrario, in quanto esseri del “che-fare”, ne emergono e, oggettivandolo, possono conoscerlo e trasformarlo con il loro lavoro.10
Attraverso questa riflessione sulla sua situazione, sul suo ambiente concreto, l’uomo diviene soggetto; più riflette sulla realtà, sulla sua situazione concreta, più ne “emergerà” pienamente cosciente, impegnato e pronto ad intervenire sulla realtà per cambiarla.
E’ importante puntualizzare che per Freire la teoria non è verbosità, anzi, c’è bisogno della teoria, che implica un inserimento nella realtà, un contatto analitico con ciò che esiste per provarlo, per viverlo pienamente nella pratica. In questo senso teorizzare equivale a contemplare; non però nel senso deviato che significa opposizione alla realtà, astrazione.11
Questi due momenti coesistono in una relazione dialettica, non c’è dicotomia: per il fatto che difendiamo la prassi, cioè la teoria del fare, non stiamo proponendo dicotomie, da cui risulti che questo fare si divide in una tappa di riflessione ed in un’altra d’azione: azione e riflessione, riflessione e azione si verificano simultaneamente.12
Da un punto di vista pedagogico, una conseguenza di questo ragionamento è la necessaria coerenza tra i metodi ed i contenuti del processo educativo, in quanto non è possibile realizzare un’educazione democratica in una struttura autoritaria. Freire non accetta la posizione di chi pensa di “liberare dominando”, ossia la posizione di chi si professa rivoluzionario, ma continua a utilizzare gli stessi metodi autoritari della classe dominante.
La prassi è l’unione coerente tra ciò che si fa e ciò che si dice, che influisce sulla realtà e la trasforma soltanto se diventa un processo continuo, che dopo ogni azione si ferma a riflettere e da questa riflessione riceve la ricchezza e la creatività per continuare ad agire in senso critico e trasformatore. Quindi un’educazione che sia autenticamente al “servizio delle masse oppresse” deve partire dalla riflessione sulla loro realtà, sulle loro difficoltà quotidiane, domande e potenzialità, per promuovere un’azione che, coerente con questa riflessione, risponda ai loro bisogni e non a progetti scritti a tavolino, per tornare poi a riflettere sull’azione stessa per migliorarla.
Come leggere Freire nel Nord del mondo
Certamente la nostra attuale situazione differisce dal contesto in cui Freire ha sviluppato la sua “educazione popolare”, così come certi termini usati hanno una valenza diversa nei due contesti culturali: ad esempio “popolo” e “intellettuale”, lo stesso concetto di “scuola pubblica” che in Brasile (come del resto praticamente in tutta l’America Latina) è quasi inesistente.
Nonostante tutto una riflessione su quanto Freire sosteneva e soprattutto su quanto ha fatto sarebbe estremamente ricca e proficua anche per chi lavora nella scuola pubblica in Italia nel 2003; la straordinaria carica ideale ed emotiva del messaggio di Freire, il concepire l’istruzione come una fondamentale tappa dell’emancipazione dell’individuo, l’indissolubile nesso creato tra la crescita della conoscenza e la crescita della “coscienza critica”, il carattere profondamente rivoluzionario delle sue premesse e del suo lavoro non possono lasciare indifferenti.
Il concetto stesso di “alfabetizzazione” potrebbe essere assunto come centrale; l’alfabetizzare è il dotare l’individuo degli strumenti per “leggere il mondo”, se nelle selve e nelle favelas brasiliane questo coincideva con l’insegnare a leggere e scrivere, ma anche imparare a discutere dei problemi vissuti quotidianamente, tutto questo spesso diretto anche agli adulti; qui ed ora si tratta di rendere coscienti del mondo in cui vivono (“aiutarli ad emergere” direbbe Freire) bambini ed adolescenti che, pur sapendo leggere e scrivere, sono spesso inermi rispetto ai modelli sociali proposti ed imposti dalla cultura dominante che tende a farne dei supini esecutori e, soprattutto, degli accaniti consumatori.
Che dire infine di una grande costante che in qualunque tempo ed in qualunque latitudine ha sempre contraddistinto il potere: l’accanimento con cui si osteggia l’idea stessa di una scuola libera e creatrice di coscienze libere. Questa concezione trasformatrice, questa funzione politica di “liberazione dell’oppresso” dell’istruzione, è stata ben compresa dagli “oppressori” che non mancano mai di perseguitare chi agisce in questo senso e non solo in Brasile (per esempio: maestri e membri delle “brigate di alfabetizzazione” erano tradizionalmente vittime predilette dei sicari della contra nicaraguense). Con le dovute proporzioni, anche da noi si assiste ad un continuo attacco alla scuola pubblica, a tentativi di assoggettarla alle regole del “libero mercato”, al tentativo di asservirla ai poteri dominati svilendone la potenzialità di creatrice di cittadini consapevoli dei propri diritti.
La lezione, ma anche la battaglia, di Paulo Freire possono senz’altro trovare elementi di validità anche nei nostri contesti, d’altronde gli “oppressi” esistono ovunque ed ovunque hanno il compito storico di liberare sé stessi e tutta la società.

Note
1 P. Freire, L’educazione come pratica della libertà – Mondadori 1973.
2 P. Freire, L’educazione come pratica…, cit.
3 P. Freire, La pedagogia degli oppressi – Mondadori 1971.
4 P. Freire, Conscientizaçao: teoria e practica de libertaçao – Cortez & Moraes – Sao Paulo 1979
5 P. Freire, La pedagogia…, cit.
6 P. Freire, Frei Betto – Una scuola chiamata vita – EMI 1986
7 P. Freire, M Gadotti, S Guimaraes – Pedagogia: dialogo e conflitto – SEI 1995
8 P. Freire, F. Betto, Una scuola…, cit.
9 P. Freire, L’educazione come pratica …, cit.
10 P. Freire, La pedagogia…, cit.
11 P. Freire, L’educazione come pratica …, cit.
12 P. Freire, La pedagogia …, cit.


Cenni biografici

Nacque a Recife, nello stato di Pernanbuco, nel 1921. La sua famiglia si trasferì a vivere a Jaboatao dove seguì gli studi secondari. Conseguì la laurea in Diritto all’Università di Pernanbuco.
Durante questo periodo diede lezioni di portoghese. Si sposò con Elza, maestra, che influì affinché si dedicasse all’educazione abbandonando la carriera di avvocato.
Lavorò nel dipartimento di Educazione e Cultura di Pernanbuco come direttore e più tardi come Soprintendente dal 1946 al 1954. E’ qui che iniziò le sue esperienze educative e che andò emergendo il metodo di alfabetizzazione degli adulti. Con il Movimento di Cultura Popolare di Recife sviluppò il suo particolare metodo di alfabetizzazione. Lavorò come direttore di Estensione Culturale nell’università di Recife, dove esercitò anche l’insegnamento di Storia e Filosofia.
Freire riuscì ad alfabetizzare 300 adulti in un mese e mezzo, applicando il proprio metodo, per cui il Governo Federale decise di estendere l’azione educativa in tutto il territorio brasiliano. Nel 1964 per il Golpe di Stato si interruppe la campagna di alfabetizzazione che Freire aveva organizzato e venne incarcerato come sovversivo intenzionale. Uscito dal carcere Freire si rifugiò nell’ambasciata di Bolivia per iniziare un lungo esilio. In Cile si fermò dal 1964 al 1969. Lavorando come professore all’Università di Santiago, elaborò una delle sue opere più importanti: “L’educazione come pratica di libertà” dove scrisse le esperienze realizzate in Brasile, e “Pedagogia dell’Oppresso” che costituisce l’opera che più lo rappresenta.
Il suo metodo fu utilizzato nelle campagne di alfabetizzazione che vennero realizzate in tutto il territorio del Cile.
Nel 1969 fu nominato esperto dell’Unesco. Fissò la sua residenza e lavorò nel Dipartimento di Educazione del consiglio mondiale della Gioventù, partecipò a numerosi programmi di educazione per gli adulti in vari paesi africani.
Dopo 17 anni di esilio rientrò in Brasile nel 1980; fissò la sua residenza a Sao Paulo dove proseguì lo sviluppo della sua teoria pedagogica. Nel 1986 gli fu assegnato il premio Educazione dell’Unesco.
Nel 1997, prima di morire, ebbe assegnata la laurea honoiris causa dall’Università tedesca ‘Carl von Ossietzky’. Morì il 3 maggio 1997 nel suo paese di nascita.


Ai piccoli Sem Terra

Introduzione al racconto [da “Fazendo Historia” n. 7 (2001) pubblicazione del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra – MST.]

Questo è un nuovo libro della collana Facendo storia del MST.
L’ultimo che presentammo nel settembre dell’anno passato aveva come nome Semente, vi ricordate? E anche questo è stato scritto dal nostro caro compagno Carlos Rodrigues Brandao.
Così, a causa di quel libro, Semente, il professor Carlos conobbe meglio i piccoli senza terra del MST. Restò molto colpito ed emozionato da alcune poesie che voi avete scritto e gli avete lasciato in regalo.
Questa volta il professore Carlos Brandao ha scritto un libro che ci racconta una storia. Una storia di persone, di lettere e di parole. E’ la Storia del bambino che leggeva il mondo. E questa non è una storia di quelle inventate: è una storia che è accaduta nella realtà.
E’ la storia della vita di un altro professore, il professore Paulo Freire, un altro grande compagno e amico del MST. Lui imparò a leggere e a scrivere le parole e il mondo: e gli piaceva insegnarlo a tutte le persone. Sapete cosa vuol dire leggere e scrivere il mondo? Se non lo sapete, lo scoprirete leggendo questo libro, statene certi.
Paulo Freire non vive più tra noi. Ma se voi guardate con molta attenzione il disegno che c’è sulla copertina di questo libro, scoprirete dove sta ora. Guardate bene, non vi pare che stia porgendo la mano proprio a voi? A tutti noi che guardiamo con affetto a lui?
La storia di Paulo Freire è molto bella. Di sicuro vi piacerà e imparerete molto leggendola. E la vorrete raccontare anche ad altre persone. Potete anche scrivere lettere al professore Carlos Brandao, dicendogli cosa pensate della storia.
Ma prima che cominciate la lettura, vorremmo fare una proposta: che ne dite di leggere questo libro insieme ad altre persone, in un gruppo di lettura, dove ognuno ne legge una parte a voce alta, e gli altri lo accompagnano con lo sguardo e l’attenzione?
Se pensate che sia una buona idea, scegliete chi può fare questa lettura con voi: può essere la mamma o il papà, i fratelli, gli zii, o possono essere i vostri compagni e compagne di scuola, o i vicini…Scegliete voi. L’importante è trovare il momento in cui tutti si possano fermare a leggere e gustare bene la lettura.
Allora sedetevi in circolo, ben comodi, per terra o nel vostro banchetto e cominciate la lettura, per tutti quelli che stanno ad ascoltare. Potete fermarvi di tanto in tanto per discutere su quello che state pensando della storia. E non serve leggere tutto il libro in un solo giorno. Potete leggerne un pezzetto ogni giorno, pian pianino, per cominciare a provare il gusto di leggere in questo modo.
Se faremo così, di certo il professore Carlos Brandao sarà ben contento.
E il professore Paulo Freire, là dove si trova adesso, ci manderà un abbraccio pieno di affetto, ché si sia ogni giorno di più orgogliosi di essere dei semterrinha del MST. Semterrinha che sanno dare valore a persone come loro, che sanno anche leggere e scrivere il mondo.
Un grande abbraccio per voi e buona lettura!
Dal Collettivo nazionale degli educatori e delle educatrici del Mst.
San Paolo, febbraio 2001


Glossario dei termini brasiliani

  • SanhaçuOlha-pro-caminho-que-vemBem-te-viSabià: uccelli tropicali dal nome intraducibile, spesso onomatopeico del suono del verso
  • Mango: frutto tropicale molto dolce e saporito. E’ un grande albero, molto comune in Brasile ; viene coltivato nei giardini familiari non solo per il frutto ma anche per ornamento e ombra.
  • Mango spada: varietà di mango più verde e allungata.
  • Assentamento: fase successiva all’occupazione della terra di un latifondo e all’accampamento. A differenza di quest’ultimo l’assentamento ha ottenuto un riconoscimento legale: la terra viene assegnata in via definitiva agli occupanti, ai quali vengono riconosciuti i diritti a una serie di servizi (scuola, assistenza sanitaria, ecc.).

Storia di Paulo Freire, il bambino che leggeva il mondo

Carlos Rodriguez Brandao
[Traduzione di Marta Gomes e Roberto Casalini, coordinati da Remo Marcone]

IL BAMBINO DELL’OMBRA DEGLI ALBERI DI MANGO
Lo chiameremo Paulo.
Tutti hanno il loro nome proprio. Il proprio nome. Hanno un nome che è loro e anche uno di famiglia. Lo stesso vale per il nostro Paulo.
Quando nacque, all’inizio del XX secolo, questo appena terminato, il suo nome per intero era: Paulo Reglus Neves Freire. Ma da quando era un bambino lo chiamavano soltanto PAULO FREIRE. E fu con questi due nomi che egli finì per essere conosciuto.
Fu un bambino che imparò a leggere e scrivere tracciando le parole sul suolo.
Sarà mai per questa ragione che dopo divenne “il bambino che piantava parole”?
Ma egli fu anche “il bambino che leggeva il mondo”. Guardate un po’ !
Paulo Freire nacque a Recife, nel Pernambuco, “laggiù nel Nordeste…”, o “qui nel Nordeste..”, se tu abiti “lì nel Nordeste”, vero?
Qui sarà, allora, raccontata la storia di questo bambino che crebbe, giocò molto, studiò molto e poi divenne professore.
Raccontata sulla carta, con lettere, con parole e con frasi.
Voi che avete imparato a leggere e che state leggendo quello che sta scritto qui, a poco a poco, scoprirete perché il nome di questo libro finì per essere “la storia del bambino che leggeva il mondo”.
Lo sapevate? Anche i libri hanno un nome e talvolta hanno anche soprannomi. Scoprirete che anche questo potrebbe ben avere come soprannome: “una storia di persone, di lettere e di parole”
Paulo Freire
Allora andiamo. Dove andiamo? Andiamo fino a Recife, in Pernambuco, nel Nordeste del Brasile.
Il bambino Paulo Freire nacque là, nel giorno 19 di settembre del 1921. Siccome stiamo scrivendo nel febbraio del 2001, possiamo vedere che ,oltre a sette mesi e alcuni giorni, sono passati ottant’anni.
Nei primi anni della sua vita, Paulo visse in una casa a Recife. Una casa con le stanze grandi, le pareti alte sotto un tetto dove, proprio a fianco, dormivano colombe e rondini.
Una casa con un giardino e grandi alberi di mango dai frutti dolci, rami alti e un’ombra amica. Fu là che, persino prima di andare a scuola, lui apprese a leggere e a scrivere.
Dunque, nel 1981, circa 55 anni dopo essere andato per la prima volta in una scuola, il professor Paulo Freire scrisse, in un libro chiamato L’importanza dell’atto di leggere, come era la vecchia casa e come egli avesse vissuto lì momenti felici e indimenticabili. Andiamo a leggere quello che scrisse?
“Mi vedo allora nella casa in cui nacqui, a Recife, circondata da alberi, alcuni di loro amati come se fossero persone, tale era l’intimità tra noi- sotto la loro ombra giocavo e tra i loro rami più docili, alla mia altezza, io mi esercitavo nei rischi che mi preparavano a rischi e avventure maggiori.
La vecchia casa, le sue stanze, i suoi corridoi, la sua soffitta, il suo terrazzo – il luogo delle piante rampicanti di mia madre – l’ampio cortile in cui si trovava, tutto ciò fu il mio primo mondo. In esso iniziai a gattonare, a balbettare, ad alzarmi in piedi, a camminare, a parlare. In verità, quel mondo speciale mi si presentava come il mondo della mia conoscenza percettiva, paragonabile, proprio per questa ragione, al mondo delle mie prime letture.
I “testi”, le “parole”, le “lettere” di quel contesto si materializzavano nel canto degli uccelli – quello del sanhaçu,, quello dell’olha-pro-caminho-que-vem, quello del bem-te-vi, quello del sabià, nelle danza delle cime degli alberi scossi dai forti venti che annunciavano tempesta, tuoni, lampi, la pioggia giocava con la geografia, inventando laghi, isole, fiumi, ruscelli. I “testi”, le “parole”, le “lettere” di quel contesto si realizzavano anche nel fischio del vento, nelle nuvole del cielo, nei suoi colori, nei suoi movimenti; nel colore del fogliame, nella forma delle foglie, nel profumo dei fiori- delle rose, del gelsomino- nel fusto degli alberi, nella buccia dei frutti. Nella tonalità differente dei colori di uno stesso frutto in momenti diversi: il verde del mango-spada verde, il verde del mango-spada gonfio, il giallo-verde dello stesso mango in maturazione, le macchie nere del mango più in là nella maturazione. La relazione tra questi colori, lo sviluppo del frutto, la sua resistenza alla nostra manipolazione e il suo gusto.
Di quel contesto facevano ugualmente parte anche gli animali: i gatti della famiglia, la loro maniera furba di acciambellarsi sulle gambe della gente, il loro miagolio, di richiesta oppure di rabbia; Joli, il vecchio cane nero di mio padre…, quando, quasi sportivamente, cacciava, puntava e uccideva una delle molte sarighe (specie di marsupiale americano,) responsabili della sparizione delle grasse galline di mia nonna.
Di quel contesto – o del mio mondo immediato – faceva parte, d’altro canto, l’universo del linguaggio dei più vecchi, quando parlavano delle loro credenze, delle loro paure, dei loro valori.

Ogni bambino che un giorno diventa “grande” e diventa “una persona adulta”, si porta con sé lungo la propria vita la bambina o il bambino che è stato prima
Quanta nostalgia doveva sentire il professor Paulo Freire del “bambino Paulo”, per parlare in questo modo. Per parlare di animali e di alberi di mango, quando quello che egli stesso intendeva era raccontare per iscritto come successe che egli imparò a leggere le parole prima di andare a scuola!
Vediamo. Com’è che Paulo Freire si ricorda dei luoghi dove è stato bambino?
Prima la casa al suo interno, poi il grande cortile. E nel cortile, prima i grandi alberi e la loro ombra, e i rami e i frutti. Quando già era nonno, Paulo Freire scrisse un altro libro. Sapete qual era il titolo? Era: all’ombra di questi alberi di mango. Egli scrisse molti libri, lo vedrete. Poi vengono gli animali selvatici, gli uccelli e il loro canto. Poi gli animali di casa, i gatti e il cane Joli. E poi arriva la volta delle persone, dei “più vecchi”, e per un bambino che a mala pena aveva imparato a salire sui primi rami di un albero di mango, quasi tutta la gente del suo mondo era qualcuno di “più vecchio”!
Poi arriva il tempo delle paure. Proprio così, perché sia maschietto che femminuccia, qual è il bambino che non ha le proprie paure? Ma le loro paure non erano uguali a quelle dei bambini di oggi. Sapete cosa li spaventava di più? Le anime vaganti. Guardate un po’! Ed erano i grandi quelli che insegnavano ai bambini queste paure. Guardiamo come lui parla di questa cosa.
“Mi riferisco alla mia paura delle anime vaganti, la cui presenza tra di noi era permanente oggetto delle conversazioni dei grandi nei tempi della mia infanzia…
Non c’era clima migliore per gli scherzetti delle anime vaganti di quello. Mi ricordo delle notti in cui , coinvolto nelle mie stesse paure, aspettavo che il tempo passasse, che la notte se ne andasse, che l’alba semi-illuminata arrivasse pian pianino , portando con sé il canto degli uccelli del mattino.
I miei timori notturni hanno finito per acuire in me, nelle mattine chiare, la percezione di un numero infinito di rumori che si perdevano nella luminosità e nella confusione delle giornate, ma che erano misteriosamente sottolineate nel silenzio profondo delle notti.”
Quel tempo era simile a questo di adesso. Ma era anche molto diverso. Non c’era l’elettricità in molte città. Il bambino Paulo parla di lampionai che passavano per le strade, alla fine delle giornate, ad accendere gli stoppini dei lampioni a gas. Non c’era la radio, né il telefono. La Tv? Neanche per sogno! Chi di voi vive in un posto di campagna molto distante saprà bene di che cosa il bambino Paulo Freire sta parlando.
Le notti erano lunghe, scure, silenziose. Notti popolate dai rumori della casa e da quelli del mondo. Rumori come il vento di fuori, come i topi che corrono nella soffitta di una casa vecchia o come il verso triste della civetta.
L’orologio della prima mattina era il canto di tutti gli uccelli. Allora le persone si abituavano a sapere le ore dal rumore degli animali e dalla posizione del sole nel cielo.
I giocattoli non arrivavano già fatti dai negozi e i bambini da subito imparavano a “giocare a fare i giocattoli”: l’aquilone, la trottola, le trappole per uccellini, le case sugli alberi, il camion di legno vecchio e di latta usata.
Tutto si imparava, tutto si creava, tutto si inventava in quel tempo.
Ma non sembrava un tempo triste. In nessun modo. Anzi. Perché tutte le persone “antiche”, quando parlano di “quei tempi”, sembra che ne sentano molta nostalgia. O sarà che è perché ricordiamo sempre con nostalgia il tempo in cui si è stati bambini?
I bambini imparano.
Imparano da molto presto e imparano molto. Quando si va a scuola alcuni adulti dicono: “studia per vedere se riesci ad imparare qualcosa”, non è vero? Ma loro dimenticano che quando un bambino arriva a scuola ha già imparato molto, tantissimo. Ha imparato con il mondo. Ha imparato a guardare, toccare e vedere il mondo in cui vive. Ha imparato con gli altri: la madre e il padre, i fratelli e le sorelle più grandi, i cugini e gli altri parenti. Ha imparato con le amiche e gli amici della stessa età. Ha imparato con la vita. Poiché la vita che viviamo un pochino ogni giorno è la miglior maestra di ognuno di noi.
Fate attenzione voi: quando si arriva a scuola, ed è il primo giorno di lezione, abbiamo già imparato tante cose! Abbiamo imparato a salire sui rami dell’albero di mango e a sapere qual è la differenza tra un gatto e un gallo. Abbiamo imparato a convivere con i genitori ,con i fratelli e le cugine. Abbiamo imparato a parlare e a capire una lingua chiamata il portoghese (la nostra), che poi studieremo per imparare a leggere e scrivere con le maestre a scuola. Non è così?
Ma il bambino Paulo, no. Lui ha persino imparato a leggere e scrivere prima di andare a scuola. Ha imparato a leggere parole della sua lingua, che è il portoghese. E ha imparato a leggere il mondo.
Fate attenzione a come scrive di queste cose. Inizia dicendo il buono dell’imparare a leggere il mondo in cui si vive è che, a poco a poco, le nostre paure vanno scomparendo. Perché abbiamo veramente paura soltanto di ciò che non capiamo.
“Nella misura in cui però ho conosciuto meglio il mio mondo, in cui meglio lo percepivo e lo capivo nella “lettura” che di lui facevo, i miei timori andavano diminuendo.
Ma è importante dirlo: la “lettura” del mio mondo, che è sempre stata per me fondamentale, non ha fatto di me un bambino “anticipato” in uomo, un razionalista in pantaloni corti. La curiosità del bambino sarebbe stata alterata dal semplice fatto di essere esercitata, e in ciò sono stato più aiutato che disturbato dai miei genitori.
E’ stato proprio con il mondo che, in un certo momento di questa ricca esperienza di comprensione del mio mondo più vicino (senza che tale comprensione avesse significato disamore verso ciò che esso aveva di incantevolmente misterioso), ho cominciato ad essere introdotto alla lettura della parola.
“Decifrare” la parola fluiva naturalmente dalla “lettura” del mondo personale. Non era una lettura arbitraria delle cose. Sono stato alfabetizzato sul pavimento del cortile della mia casa, all’ombra degli alberi di mango, con parole che riguardavano il mio mondo e non il mondo più vasto dei miei genitori. Il pavimento è stato la mia lavagna; i rametti sono stati il mio gesso.”
Avete visto? Sembra un po’ difficile quello che Paulo Freire ha scritto. E’ perché lui lo ha scritto quando era già “molto grande”, non dimenticatelo. Ed è anche perché lui ha scritto per altre persone grandi. Lui, che amava sempre dire di avere una “anima di bambino”, persino quando già era adulto da un pezzo.
Egli ha voluto ricordarci che, prima di imparare e nello stesso tempo che noi impariamo a comprendere le parole parlate e quelle scritte, stiamo sempre imparando e re-imparando a leggere gli altri “linguaggi del nostro mondo”. Gente! Che cosa è questo?
In verità sono i linguaggi dei “mondi” del nostro mondo. Questo non significa dire che una persona finisce con l’imparare a capire e parlare il linguaggio dei fiori, il linguaggio delle farfalle, le lingue dei canti degli uccellini, quella dei latrati dei cani e dei miagolii dei gatti. Sarebbe bello, non è vero? Ma non è così
Lui intende dire che il MONDO insegna, e che si impara con la VITA. Si impara sempre, un poco ogni giorno, vivendo con tenerezza e con attenzione ogni momento di ogni minuto di ogni ora della nostra vita. E’ buona questa cosa che i bambini imparano senza aver bisogno di studiare nella scuola. E imparano convivendo con gli altri: con le piante, con gli animali e con le persone, con tutto e con tutti coloro con cui noi dividiamo i momenti allegri e quelli tristi della nostra vita.
A scuola impariamo i numeri e i calcoli della matematica, le parole e le frasi del portoghese. E questo è molto importante. Impariamo a dare i nomi e mettere i numeri alle cose del nostro mondo. E questo certe volte è buono e altre volte non lo è. Ma prima della SCUOLA, la VITA stessa insegna lo scuro e il chiaro, l’alto e il basso, il freddo e il caldo, il grande e il piccolo, il molto e il poco, il bello e il brutto, l’allegro e il triste. E che altro? Ancora molto e molto di più!
Il bambino Paulo imparò a leggere un poco del mistero del mondo e venne ad avere meno paura delle cose: di quelle che esistono e di quelle che non esistono.
E più avanti, usando con tenerezza i ramoscelli come gessi e il suolo del cortile come lavagna, egli imparò a scarabocchiare le lettere, a formare le sillabe. Imparò a mettere per iscritto le parole che egli già sapeva, parlando.
“…Il suolo fu la mia lavagna; i ramoscelli il mio gesso”.
E quando egli racconta quello che accadde quando andò nella prima scuola della sua vita, inventa una parola: parolamondo, guardate un po’ voi.
“Fu così che ,all’arrivo alla scuola privata di Eunice Vasconcelos, io ero già alfabetizzato. Eunice continuò, approfondì il lavoro dei miei genitori. Con lei la lettura della parola fu la lettura della parolamondo”.
Parolamondo. Guardate voi! Se qualcuno va a cercare questa parola in un dizionario, non riesce a trovare niente. Bene, alla “lettera m” trovate la parola “mondo” e, dopo, alla “lettera p”, trovate il termine “parola”. Ma le due unite, no. Furono la professoressa Eunice e il bambino Paulo che inventarono questa parola.
Ed egli racconta che quando arrivò a scuola e già sapeva “leggere” bene il mondo delle cose, delle persone, della vita e il mondo delle parole, egli apprese qualcos’altro di molto importante. Imparò che per apprendere gli “insegnamenti” della SCUOLA – la “piccola scuola delle prime lettere” – non era necessario smettere di apprendere le lezioni del MONDO e le lezioni della VITA.
Al contrario, quanto più egli imparava a leggere le lettere, a leggere i fonemi, a leggere le parole, a leggere le frasi, a leggere le storie e i libri interi, tanto più egli desiderava continuare ad imparare a leggere le altre letture della VITA e del MONDO.
In fondo i sabiàs continuavano a cantare al mattino, gli alberi di mango continuavano a ripetere giorno dopo giorno, anno dopo anno, la stessa meraviglia di rinnovare le foglie che seccano, di fiorire e di, più tardi, sospendere sui rami i manghi che nascono, crescono, maturano e sono una delizia da settembre a dicembre per la bocca dei bambini.
Quante domande! Quanti misteri! Quanta voglia di trovare risposte! Le risposte scritte nei libri e le risposte scritte nel mondo.
Chi sono io? Da dove vengo? E il mondo in cui vivo, da dove viene? Dove andrà?
Perché si vive e si muore? Perché il mondo è così e non è come nei libri dei racconti delle fate?
Perché le persone del mondo hanno fatto il mondo così com’è? Non sarà che sarebbe potuto essere in un’altra maniera: più felice…più in pace?
Quando già era un signore dai capelli bianchi e dalla barba lunga, Paulo Freire tornò un giorno nella casa dove abitò fino a compiere i dieci anni di età. Racconta come fu.
“Poco tempo fa, con profonda emozione, visitai la casa in cui sono nato. Toccai lo stesso pavimento sul quale mi sono alzato in piedi per la prima volta, ho corso, parlato, imparato a leggere. Lo stesso mondo – il primo mondo che si presentò alla mia comprensione tramite la lettura che di esso stavo facendo.
Lì ritrovai alcuni degli alberi della mia infanzia. Li riconobbi senza difficoltà. Ho quasi abbracciato i grossi tronchi – i giovani tronchi della mia infanzia. Allora una nostalgia che uso chiamare “mansueta” oppure “educata, uscendo dal suolo, dagli alberi, dalla casa, mi ha circondato con molta cura. Lasciai la casa contento ,con l’allegria di chi ritrova persone care…”
Rendetevi conto del fatto che quando ha scritto sulla sua infanzia nella casa della città di Recife, lui ha parlato con delle “lettere”, “sillabe”, “parole” e “frasi”.
Ora, tutte le persone che hanno già studiato un poco nelle scuole sanno cosa ciò significhi . Anche tutto ciò che state leggendo qui e ora è formato da lettere, come la “l” e la “m”. E’ anche formato da sillabe come la “le” e la “mon”.
E’ formato di parole, come “lettera”oppure come mondo”. Per finire, è formato da frasi come: “imparando a leggere le parole imparavo a leggere il mio mondo.”
Ma lui parlava anche di “testi” e di “contesti”. Non è vero?
Queste sono le parole più difficili… Ma nemmeno tanto. Guardate: parole e frasi insieme formano periodi che compongono i “testi”. Un “testo” è ciò che si scrive o si legge e si può capire .E ha un senso.
Tutto quello che avete letto in questo libro, fin qui, è parte del testo che abbiamo scritto. Tutto ciò che c’è stato fin qui, più quello che verrà da adesso in avanti, ha creato questo libro chiamato: “Storia del bambino che leggeva il mondo”.
Questo libro è un testo, che ognuno di voi riscrive quando ne legge un pezzo, oppure quando lo legge per intero. Sempre quando leggiamo con attenzione qualcosa che qualcun altro ha scritto, in un certo modo lo scriviamo di nuovo.
E “contesto”?
CONTESTO è il MONDO dove la VITA vive la sua STORIA.
Ops! E questo qui che significa?
Andiamo a vedere: “contesto” è lo spazio dove le persone stanno insieme, vivono insieme e imparano a vivere insieme. E’ dove si pianta e si raccoglie il granturco e dove si trova “la mia casa con la mia famiglia”. Il mio “contesto” è il posto dove io vivo e vive anche la gente con la quale mangio la zuppa di granturco intorno ad un tavolo. E’ dove vivono i nostri vicini e “la nostra comunità”. Può essere un villaggio in campagna, un piccolo paese, una grande città, un accampamento, un assentamento.
In questo modo il contesto della vita del bambino Paulo Freire era la casa in Recife, il quartiere dove si trovava, la città di Recife e la regione a cui appartiene: Pernambuco. E’ il Nord-est del Brasile dove si trova Pernambuco, ed è anche il Brasile del Nord-est, di Recife, del quartiere, della via e della casa del bambino Paulo nel tempo in cui lui viveva lì la sua vita .
Il contesto delle nostre vite raccoglie il MONDO DELLA NATURA, come la TERRA e tutto ciò che in essa esiste. Proprio tutto, come gli alberi di mango del bambino Paulo, gli uccelli sabià, il granturco, i fiumi e la notte, ed ancora il sole e la pioggia.
Dentro un “contesto” si trova anche ciò che gli ESSERI UMANI , che vivono nel mondo, fanno al suo interno e con esso. Esseri umani siamo tutti noi .
Tutto ciò che pensiamo, creiamo, e facciamo, quando trasformiamo le COSE DELLA NATURA in OGGETTI DEL MONDO UMANO. Come il dolce di mango fatto con il mango maturo. Come una poesia che una bambina scrive sull’uccello sabià. Come la casa dove si vive. Come l’abbecedario, dove si impara a leggere. Come il nostro modo di vivere la vita di ogni giorno. Vivere questa vita convivendo gli uni con gli altri: nella nostra famiglia, nella nostra comunità. E anche questo libro che scriviamo e voi state leggendo, ossia riscrivendo insieme a noi una volta ancora.
Fu pensando e leggendo molto che, quando già era “grande”, Paulo Freire ha imparato a chiamare CULTURA tutto ciò di cui finora abbiamo parlato. Poiché la CULTURA è il mondo che la gente crea per poter vivere insieme.
La parola “contesto” me ne ricorda però un’altra.
“Contesto” vuol dire :”ciò che sta con il testo”. Quello che si trova al suo fianco.
Bene, l’altra parola è molto conosciuta da tutti noi: “compagno”.
Nello stesso modo che è successo con la parola “contesto”, la parola “compagno” è arrivata al portoghese , la nostra lingua, dal latino. E lingue come il portoghese, lo spagnolo, l’italiano, il francese nacquero dal latino. Sono le sue figlie, le sue eredi.
Bene, in latino “compagno” vuol dire: “con il pane”.
Cioè: “quello che mangia il pane con me”. “Quello che divide con me il pane”. Da lì questa parola si è lentamente trasformata ed è finita per diventare quest’altra così bella: “COMPAGNO”.
Avete visto come le parole nascono e si trasformano, proprio come gli uccelli sabià, i manghi e tutto ciò che esiste e vive?
DA RECIFE VERSO JABOATAO
Prima di crescere il tanto che mancava per diventare “grande”, il bambino Paulo andò a vivere in una città vicino a Recife, chiamata Jaboatao. Vediamo quello che una persona che Paulo Freire amò molto scrisse a riguardo di questo cambiamento. Più avanti diremo il suo nome.

“A dieci anni di età andò a vivere nelle vicinanze della capitale pernambucana, a Jaboatao, una cittadina distante 18 chilometri da Recife e che, per Paulo, ebbe il sapore del dolore e del piacere, della sofferenza e dell’amore, della ristrettezza e della crescita. In quella città, a tredici anni di età, sperimentò il dolore della perdita di suo padre, conobbe il piacere di convivere con gli amici e conoscenti che furono solidali in quei tempi difficili, provò la sofferenza quando vide sua madre, precocemente vedova, lottare per mantenere se stessa e i suoi quattro figli, si fortificò con l’amore che aumentò tra loro a causa delle difficoltà che affrontarono insieme, provò la sofferenza dovuta alle cose perdute e alle privazioni materiali, si meravigliò con la crescita del suo corpo, ma, senza lasciare che il bambino lo abbandonasse definitivamente, permise che l’adulto andasse conquistando spazio nella sua esistenza. Nella misura in cui vedeva il suo corpo crescere, sentiva anche aumentare la sua passione per la conoscenza…”
E così fu. Viene il giorno in cui si impara anche con la tristezza. Si impara con il dolore nel cuore, un dolore che non avremmo mai voluto venisse, ma che alle volte viene. E allora è necessario imparare a vivere anche con esso.
Fu per questo che lui un giorno scrisse che da bambino aveva imparato che il Mondo dove viviamo è fatto anche da noi stessi. Che se è così come è, potendo anche essere migliore, allora siamo noi, la gente del nostro mondo, gli uomini e la donne, a poter cambiare questo mondo. In un lettera che un giorno scrisse a una sua nipote chiamata Cristina, egli disse questo:
Al contrario, in tenera età già pensavo che bisognava cambiare il mondo. Che c’era qualcosa di sbagliato nel mondo che non poteva e non doveva continuare.
Questo pezzettino di lettera si trova in un libro che Paulo Freire scrisse ad una sua nipote quando già cominciava a essere anziano. Siccome erano lettere lo intitolò Lettere a Cristina.
Ma non tutto fu triste in quel tempo a Jaboatao, quando il “bambino” Paulo andava trasformandosi nel “ragazzo” Paulo.
La stessa persona che raccontava questa parte della vita di Paulo Freire, racconta di nuovo. Andiamo a leggere con lei? Ricordate il suo nome. È Ana Maria, che gli amici chiamano anche Nita.
“Ma fu anche in Jaboatao che egli sentì, imparò e visse l’allegria nel giocare a pallone e nel nuotare nel fiume Jaboatao, vedendo le donne accovacciate a lavare e battere sulle pietre la loro biancheria, quella della loro famiglia e quella delle persone più benestanti. Fu là che imparò anche a cantare e a fischiare, cose che ancora oggi ama tanto fare, per alleviare la stanchezza e le tensioni della vita quotidiana, imparò anche a dialogare nel “cerchio degli amici” e imparò a dare valore, corteggiare e amare le donne e, infine, fu là in Jaboatao che imparò ad appassionarsi agli studi della sintassi popolare e di quella erudita della lingua portoghese…”
Credo che già sappiate che il Paulo Freire di cui stiamo raccontando la vita è un professore. Un professore che fu un fanciullo e uno studioso della vita, dentro e fuori dalla scuola. Per questo, quando ricorda il tempo in cui era un bambino del Nordest, gli piace narrare come imparò a leggere e scrivere, prima con bastoncini sul suolo del cortile e, dopo, sulla lavagna della scuola. I primi “amori” della vita di Paulo furono le lettere e le parole. Fu quello che andava scoprendo nell’imparare la sua lingua, che è anche la nostra: il Portoghese. Vediamo cosa scrive a proposito e come racconta dei primi tempi della vita a scuola.
“Quando Eunice (la sua prima professoressa, ricordate?) mi insegnava era una ragazzina, una giovinetta di 16, 17 anni. Senza che io ancora lo percepissi mi rivelò, per la prima volta, l’indiscutibile amore che oggi ho, e avevo già da allora, per i problemi della lingua e particolarmente quelli della lingua brasiliana, così come è chiamata la lingua portoghese in Brasile. Lei certamente non me lo disse, ma è come se me lo avesse detto, quando ero ancora un piccolo fanciullo, “Paulo, osserva bene come è bello il modo che la gente ha di parlare!” E’ come se lei avesse richiamato la mia attenzione verso tutto ciò.
Mi consegnavo con piacere al compito di “formare le frasi”. Era così che lei aveva l’abitudine di dire. Eunice mi chiedeva di scrivere su un foglio di carta tante parole quante ne conoscessi. Io davo forma alle frasi con queste parole che sceglievo e scrivevo. Allora, Eunice discuteva con me il senso e il significato di ciascuna…”.
Freire non si è mai dimenticato la sua prima “piccola scuola” e la sua prima maestra. Vedrete più avanti in che modo le prime lettere e avventure di Paulo Freire con lo studio – studiare ed imparare sono sempre una grande e meravigliosa avventura- furono importanti nella sua vita.
Nei suoi tempi, quando un bimbo finiva la quinta elementare faceva un esame per accedere al “ginnasio”, come si diceva allora. Era un esame difficile che si chiamava: “esame di ammissione”.
E questo era proprio il momento in cui un bambino iniziava a diventare un ragazzo e una bambina a trasformarsi in ragazza. Guardate come il bambino-ragazzo Paulo parla di questo tempo e di come fu difficile continuare gli studi dopo la piccola scuola della maestra Eurice Vasconcelos.
Sono stati tempi duri per una famiglia di ceto medio come la sua, impoveritasi intorno all’anno 1929. In questo anno c’è stato nel Brasile e nel mondo un periodo molto difficile, dove alcuni pochi ricchi divennero ancora più ricchi.
E molta gente, ma proprio molta gente, divenne ancora più povera. Paulo Freire lo racconta così:
“Facevamo parte del mondo di quelli che mangiavano (anche se in poca quantità), e facevamo anche parte del mondo di quelli che non mangiavano, anche se mangiavamo più di loro – il mondo dei bambini e delle bambine dei fiumiciattoli, delle casupole, delle favelas. Al primo eravamo legati perla nostra posizione sociale, al secondo per la nostra fame…
Ho fatto la scuola elementare esattamente durante il periodo più duro della fame. Non della” fame” intensa, ma di una fame sufficiente a disturbare l’apprendimento. Quando ho finito il mio esame di ammissione ero alto, grande, angoloso, brutto. Avevo già l’altezza di oggi e pesavo 47 chili. Usavo pantaloncini corti perché mia madre non si poteva permettere l’acquisto di un pantalone. I pantaloncini corti, enormi, sottolineavano l’altezza dell’adolescente. Sono riuscito a fare, solo Dio sa come, il primo anno di scuola media a sedici anni. Quando i compagni della mia età, i cui genitori avevano i soldi, già entravano all’università.
Ho fatto la mia prima media in una di queste scuole private a Recife; a Jaboatao c’era solo la elementare. Mia madre non poteva continuare a pagare la rata mensile ed è stata una vera maratona riuscire a trovare una scuola dove potessi studiare con una borsa di studio. Finalmente abbiamo trovato la scuola media “Oswaldo Cruz”, il cui proprietario, Aluizio Araujo, che era stato seminarista, e poi aveva sposato una donna straordinaria a cui voglio un bene immenso, decise di accettare la richiesta di mia madre. Me la ricordo arrivare raggiante a casa e dire: “Ascolta, l’unica condizione impostami dal dottor Aluizio è che tu sia studioso”.
Io amavo molto studiare e allora andai al collegio “Oswaldo Cruz” dove diventai, più tardi, professore”.
Potete immaginare l’allegria di Paulo Freire!
In quel tempo molta gente rimaneva per l’intera vita senza studiare. Nello stesso Nordest c’erano dei luoghi dove solo il dieci per cento delle persone imparava a leggere e a scrivere a scuola.
I bambini poveri non andavano alle medie, e quando qualcuno di loro riusciva ad entrare in una scuola vi rimaneva soltanto un anno o due. In quel tempo, pochissimi bambini completavano la “quinta elementare”. In una città come Jaboatao si poteva contare sulle dita delle due mani quelli che completavano la scuola media e poi andavano all’università.
Erano pochissimi quelli che finivano l’università. Quasi sempre ragazze e ragazzi delle famiglie più ricche, quelli che si laureavano come “avvocato”, “dottoressa”, “ingegnere”, “professoressa”.
Paulo Freire non si è mai dimenticato tutto ciò. Allora decise di dedicare tutta la vita ad aiutare le persone del popolo ad imparare a leggere e a scrivere. Leggere e scrivere le PAROLE DEL MONDO, ma anche IL MONDO DELLE PAROLE. Lui non ha voluto essere soltanto un professore. Volle essere un educatore che impara-e-insegna, riflettendo molto su cosa significhi insegnare e cosa significhi imparare.
Vediamo come fu che questo accadde.
DA BAMBINO A ADULTO, DA STUDENTE A PROFESSORE
Accadde che gli alberi di mango della casa di Recife fiorirono e diedero manghi maturi per molti anni. Gli uccelli sabià e sanhaçu arrivarono e ripartirono, si accoppiarono, fecero i nidi, ebbero molte nidiate di piccoli. E ne arrivarono altri e nuovi, manghi e uccelli, anno dopo anno. Gli anni passarono.
Il bambino-che-leggeva-il-mondo crebbe, diventando “grande”.
Dalla scuola media “Oswaldo Cruz” passò alla Facoltà di Diritto di Recife. Là iniziò a studiare “da avvocato”.
Quando ancora stava facendo l’università, prima di laurearsi avvocato, si sposò. La ragazza era anch’essa professoressa e si chiamava Elsa Maria Costa Oliveira.
Subito dopo diventò professore di portoghese della stessa scuola media in cui studiò. Ebbero tre figlie e due figli: Maria Madalena, Maria Cristina, Maria de Fatima, Joaquim e Lutgardes.
Dopo aver finito gli studi ed essersi laureato nella facoltà di Diritto fece l’avvocato soltanto per poco tempo. Ciò che veramente voleva era essere un professore, un educatore. E ciò è stato per tutta la vita, da quel momento in poi.
Dopo la scuola media, fu direttore di educazione e cultura del Servizio Sociale dell’industria, là nel Pernambuco. Lì cominciò a lavorare con “l’educazione di giovani e adulti”. Leggete il suo racconto:
Prima di tutto, devo dire che essere un professore divenne realtà per me dopo che cominciai ad insegnare. Divenne una vocazione per me dopo che iniziai a farlo. Cominciai ad insegnare molto giovane, per guadagnare soldi, è chiaro, come mezzo di sostentamento; ma quando iniziai ad insegnare creai dentro di me la vocazione del professore.
Insegnavo grammatica portoghese, ed iniziai ad amare la bellezza del linguaggio. Non persi mai questa vocazione…
Insegnando, scoprii d’essere capace di insegnare e di amare molto l’insegnamento. Incominciai a sognare ogni volta di più di essere un professore. Imparai ad insegnare a mano a mano che il mio amore per l’insegnamento aumentava e studiavo di più al riguardo…”
E’ stato quando l’insegnante Paulo ha imparato a conoscere la differenza tra il “parlare a qualcuno” e “parlare con qualcuno”. Guardate! Questo è così bello! Questo è così importante!…Ed è così spesso dimenticato! Una cosa è parlare come uno che parla soltanto, e perciò crede di sapere tutto. Crede di sapere tutto e dice ciò che crede di sapere soltanto per convincere le persone ad ascoltare e pensare di imparare.
Un’altra cosa è saper parlare ascoltando gli altri. Come uno che impara prima, prima di dire ciò che sa…, prima di insegnare. Paulo Freire ha imparato quello che più tardi cominciò ad insegnare a tutta la gente: chi insegna come un maestro, prima impara ad imparare con altri insegnanti e anche con i suoi allievi.
Dal SESI l’insegnante Paulo andò a lavorare all’università di Pernambuco. Passò così alcuni anni formando nuove e nuovi insegnanti
Dopo, già nel 1960 fu invitato a partecipare al Movimento di Cultura Popolare di Recife.
Avete visto? Guardate la parola “cultura” che appare ancora. Questo “movimento” riunì insegnanti ed artisti. Non esisteva soltanto nelle scuole e nemmeno era un lavoro di sola educazione. No. C’era anche il teatro, il cinema, la poesia.
Perché le persone che facevano parte del MCP (così si chiamava, solo con le iniziali dei nomi) volevano che tutto ciò che è buono e che si trova nelle parole, nelle ninne-nanne, nelle idee che le persone creano fosse portato anche alla gente povera.
Gente che a volte passava l’intera vita senza andare al cinema. E, vi ricordate? In quel tempo non c’era ancora la televisione.
Il maestro Paulo Freire era una di quelle persone che vivono facendo a se stessi e agli altri domande di questo tipo: perché alcune persone hanno tanto e altre tanto poco?
Se è vero che tutto ciò che esiste di buono nel mondo dovrebbe essere diviso tra tutte le persone del mondo, perché alcune persone hanno tanto e altre così poco?
Se c’è così tanta terra da coltivare e dove vivere in questo “grande mondo infinito”, perché c’è così tanta gente che ha molta più terra di quanto necessita, mentre tanta altra gente e tante famiglie non ne hanno? Se tutto il lavoro delle donne e degli uomini è buono ed è utile, tranne quello delle persone che lavorano soltanto per fare il male: come le armi e i veleni che uccidono la terra, perché così tanta gente lavora tanto e guadagna così poco, mentre altre persone lavorano così poco e guadagnano tanto? Se tutte le persone – dai bambini ai vecchietti – sono nati per essere liberi e felici per tutta la vita, perché tante persone non possono fare ciò che desiderano? Perché loro non possono vivere come sognano? Perché non possono essere liberi come sabià fuori dalla gabbia e felice come lo è stato il bambino Paulo, nell’alto degli alberi di mango del giardino della casa di Recife?
Se il destino di tutti gli esseri umani deve essere una vita piena di amore, di pace e di solidarietà, dove tutti sono fratelli di tutti e regna la felicità tra tutti, perché esiste tanta guerra, tanta violenza? Perché la gente vive tanti scontri, perché esiste ancora tanta malvagità e tanta ingiustizia? Chi ci guadagna? In nome di cosa tutto ciò?
Se imparare e sapere sono cose così buone e se le scuole esistono per insegnare ciò che è buono a tutti i bambini, perché così tanti bambini in Brasile crescono senza poter andare a scuola? Perché loro vivono senza imparare a leggere – e scrivere e senza sapere tutto il bene che ne viene di conseguenza? Perché?
Se nasciamo per essere “compagne” e “compagni” gli uni degli altrui, perché c’è così tanta gente che non vuole dividere il proprio pane?
Perché?
Perché?
Perché?
Paulo Freire era un maestro dalle molte domande. A volte era anche una persona dalle risposte difficili. Lo vedrete.
Il Movimento di Cultura Popolare era una grande” scuola aperta di cultura”.
Il sogno delle persone del MCP era quello di portare ai bambini e agli adulti delle zone povere di Recife, delle favelas, delle rive del fiume, tutto ciò che potesse essere visto e sentito di buono e bello. Vedete come Paulo Freire racconta il loro lavoro.
“I progetti del MCP si intrecciavano, non c’erano dipartimenti inattivi. In quell’epoca facemmo un circo che era un teatro ambulante . Facevamo un sondaggio nei quartieri periferici di Recife per sapere dove mettere il circo senza pagare le imposte. Ci informavamo sul costo del cinema più economico della zona per rendere uguale il costo del nostro biglietto. Riempivamo i circhi e la gente lo adorava…”
Ma non era soltanto questo.
Non era soltanto portare alla gente delle zone povere quello che si poteva vedere nelle zone ricche. La gente del MCP sapeva che tutte le persone, ogni famiglia, tutte le comunità, tutti avevano la propria cultura. Puoi andare fino in “fondo al mondo”, puoi andare là nel “nulla del Sertao” e là vive qualcuno. E vive come persona: le persone parlano le une con le altre e si capiscono, creano famiglie. Coltivano la terra e raccolgono. Cucinano e conoscono preghiere che si recitano prima di mangiare. Dipingono recipienti di argilla, fanno belle canzoni e bellissimi copriletto ricamati.
Quelle persone “là” hanno le loro conoscenze sulle piante e sugli animali e sanno curare molte malattie. Hanno il loro canto e i loro balli allegri. Loro creano e possiedono le loro credenze e i loro saperi. E’ proprio così. Nessun popolo, dagli indios dell’Amazzonia alla gente di San Paolo o Rio de Janeiro vive senza convivere con tutto ciò ed è così che si dice che ogni gente, ogni popolo del Brasile e del mondo possiede una propria CULTURA.
Essendo questa gente le donne e gli uomini delle classi lavoratrici del Brasile, gli insegnanti e gli artisti del MCP hanno iniziato a dare a tutto quello che le persone semplici della campagna e della città sentivano, pensavano, vivevano, facevano e creavano, il nome di “cultura popolare”.
Allora loro iniziarono a fare un lavoro nei due sensi, un lavoro “culturale” di ANDATA-RITORNO.
Da una parte il MCP voleva “portare la cultura al popolo”. Ma, da un’altra parte, voleva “imparare con il popolo la sua cultura”. Era proprio il sogno di uno scambio. Tu prendi e dai. Insegni e impari. Gli altri imparano e insegnano
Era proprio così: tu mi fai vedere, tu mi insegni come vivi, come senti, in che modo senti, come fai questo e quello ed io ti faccio vedere e ti insegno come sento e penso, come vivo e faccio questo o quello.
Ed è così. Uno scambio di tutto tra tutti. Un dialogo, una conversazione tra persone dove ognuno ascolta l’altro prima di parlare e dove ognuno insegna a chi impara, imparando da lui. E così, chi lo sa? IMPARIAMO INSIEME, tu-ed-io, noi-e-voi a costruire una cultura più nostra, più vera, più felice e più bella.
In questo modo, essendo tutti uguali e senza che nessuno si senta maggiore o migliore degli altri, noi possiamo anche essere diversi. Possiamo entrare nella conversazione-del-dialogo ognuno pensando con la propria testa, avendo delle idee che ognuno ha creato e dicendo ciò che sente, ciò che crede e ciò che pensa alle altre persone in tutta libertà.
Allora è possibile costruire insieme un modo di essere e di vivere, di sentire e pensare, una maniera di fare e di creare che sia più nostra e più creativa, per davvero.
Paulo Freire chiamava ciò una vera CULTURA POPOLARE, perché creata da persone uguali in tutte le cose importanti della vita. Uguali nel diritto dei bambini e degli adulti, delle donne e degli uomini, dei bianchi, dei negri e degli indios, ad una vita libera e felice.
Una vita piena di amore e di giustizia. Dove tutte le persone possano convivere condividendo tra loro tutto ciò che è buono nel nostro MONDO. Tutti i beni della TERRA, della VITA e del LAVORO. Una vita di grano e fagioli che germogliano nel terreno umido di dicembre, in una terra arata e curata dalle mani di tutta la gente. Con la semente piantata in una terra di tutti, dove la raccolta dei frutti verrà distribuita tra tutti, senza che alcuni, pochi, restino con tanto e tanta altra gente che ha lavorato rimanga con così poco.
Perché non sognare un MONDO così? Perché non lavorare insieme per far si che il nostro MONDO sia così?
Ed era con il sogno di questo MONDO che tutto si faceva nei “movimenti di cultura popolare”.
E’ stato nel Movimento di Cultura Popolare che Paulo Freire iniziò a lavorare con una cosa che chiamiamo “alfabetizzazione degli adulti”.Guardate un po’! Sembra una cosa strana, vero? Perché noi siamo abituati a pensare che l’alfabetizzazione sia una cosa da bambini. Qualcosa che fa parte dello studio delle bambine e dei bambini che stanno appena iniziando la scuola. Ma vi ricordate di ciò che abbiamo scritto molte righe indietro?
Nei tempi in cui Paulo Freire era bambino, e anche molto dopo, molte persone, principalmente quelle che vivevano in campagna, non potevano studiare da bambini e nemmeno da adolescenti. Risultato, arrivavano ad essere “adulti”, padri e madri di famiglia senza conoscere la differenza tra una “u” e una “m”.
Credi che sia giusto questo? Ma era proprio così in molte zone del Brasile e del mondo. E qui in Brasile continua ad essere così in molti posti, soprattutto in campagna. E anche dove vivi tu, è così?
Allora è stato necessario creare un tipo di studio speciale, un’educazione che cominciava insegnando a leggere-e-scrivere ai ragazzi e alle ragazze, ed anche alle donne e agli uomini che non lo avevano potuto fare da piccoli. Insegnava loro ad alfabetizzarsi, come si dice. Questa è la “educazione di giovani e di adulti”
E il Movimento di Cultura Popolare cominciò anche a lavorare con questo tipo di educazione.
Non era facile. Arrivava gente già molto vecchia, donne e uomini abituati a lavorare con le zappe. Era gente per la quale a volte una matita pesava troppo! Accadeva anche che tutto il materiale didattico usato con gli adulti fosse scritto e disegnato per servire ai bambini.
Proprio per questo Paulo Freire e la sua equipe di educatori cominciarono a pensare ad un modo diverso di insegnare alle persone a scrivere-e-leggere in portoghese. Credete possibile che loro volessero imparare leggendo qualcosa come: “la bambola di Lili è bella”?
Da Recife il maestro Paulo Freire e i suoi compagni andarono in un piccolo luogo, all’interno dello stato di Rio Grande del Nord. Un posto nell’entroterra, chiamato Angicos. Chi avrà una mappa del Brasile vada al Nordeste a cercare dove si trova “Angicos”. E’ stato lì che per la prima volta si lavorò in maniera nuova all’educazione di persone adulte. Questa “educazione” si trasformò in un “metodo” di alfabetizzare adulti, che più tardi si chiamò: metodo Paulo Freire.
Prima di parlare di questo, vi racconteremo ciò che accadde nella vita di Paulo Freire da Angicos in poi. Andiamo!
DA ANGICOS ALL’ESILIO
I lavori del maestro Paulo e dei suoi compagni facevano parlare.
Da una parte molta gente vedeva in loro una speranza. Si rendevano conto che era stata scoperta una maniera speciale di educare persone adulte, che non avevano precedentemente frequentato la scuola. Si resero conto che ciò funzionava così bene, che poteva persino servire nella scuola dei bambini. Videro che maestri e maestre potevano ora usare un modo di lavorare nella classe in cui le persone imparavano a leggere e a scrivere più velocemente e meglio. Perché loro non imparavano soltanto a leggere-e-scrivere le parole, ma imparavano a scrivere-e-leggere pensando, riflettendo. Ah! Adesso potevano imparare a leggere parole, imparando a pensare ogni volta di più con la propria testa. E questo è una delle cose più importanti della vita, che ne dite?
Ma d’altra parte c’erano quelli che trovavano il “metodo Paulo Freire” e tutte le sue idee pericolose. Guardate un po’!
E perché credevano “un pericolo” ciò che il maestro Paulo aveva creato? Perché lui e la sua equipe erano maestri molto preoccupati di tutto ciò che vedevano intorno a loro. C’era tanta povertà da tutte le parti, tanta disuguaglianza tra le persone di uno stesso villaggio, di una stessa città, come Angicos, di uno stesso Pernambuco, dentro uno stesso Brasile e in tutto il mondo.
Ma la scuola non doveva essere un luogo dove i piccoli e i grandi potessero parlare tra loro, imparando a vedere il mondo dove vivono come è per davvero? Ma l’educazione non doveva insegnare alle persone a cercare i motivi che fanno il loro mondo, così come è ora, imparando a cercare insieme le strade che possono cambiare il mondo di tutti noi? Paulo Freire e molti altri educatori brasiliani sapevano che l’EDUCAZIONE non cambia il MONDO. Ma la EDUCAZIONE aiuta a cambiare le PERSONE. E cambia le PERSONE insegnando loro a saper leggere meglio, a pensare meglio, giudicare meglio ciò che sta accadendo, agire meglio, insieme, le une a fianco alle altre.
E, così, PERSONE che sapevano leggere le parole leggendo il MONDO, avrebbero saputo cambiare il MONDO. Avrebbero saputo come fare un MONDO migliore, per la vita di PERSONE più felici.
Alla fine, la felicità è una cosa così bella che nessuno al mondo dovrebbe viverne senza.!
Tutto questo, se vogliamo, possiamo dirlo così:
La scuola non cambia il mondo
La scuola cambia le persone
Le persone cambiano il mondo.
Allora, in quel tempo degli anni 60 queste idee crebbero e si diffusero in tutto il Brasile, da Nord a Sud c’erano persone che partecipavano a qualche “movimento di cultura popolare”. Molte persone per la prima volta decisero di dedicare la loro vita ad aiutare le persone del popolo. Ma in un modo diverso, perché soltanto “aiutare” è ancora troppo poco. Decisero di lavorare insieme alle donne e agli uomini del popolo. “Sommarsi” a loro, stare insieme a loro, fianco a fianco. Insieme come “compagno”, come chi condivide il pane insieme alle altre persone, invece di dare loro ciò che del pane è rimasto. E, in questo modo, studiare con le persone del popolo e pensare insieme a loro come sarebbe possibile cambiare questo Brasile così grande…con tanti poveri.
Uno dei lavori più forti di quel tempo è stato quello della EDUCAZIONE POPOLARE. Al suo interno si trovava l’alfabetizzazione di donne e uomini, di giovani, adulti e persino gente molto vecchia, con il “metodo Paulo Freire”. Dalla piccola esperienza di Angicos e di Recife l’idea si diffuse in tutto il Brasile.
Arrivò il momento in cui lo stesso governo di Brasilia decise di iniziare una “campagna di alfabetizzazione” in tutto il Paese. Un lavoro nelle scuole, utilizzando il metodo di insegnamento di leggere-e-scrivere del maestro Paulo Freire. Sarebbe stata una campagna enorme, dal Rio Grande del Sud a Rio Grande del Nord, da San Paolo all’Acre, da Rio de Janeiro all’Amapà.
Ma non fu così.
DA ANGICOS VERSO MOLTO LONTANO
Allora le persone che pensavano che era molto pericoloso educare le donne e gli uomini poveri della campagna e della città, vietarono ai professori di lavorare con l’EDUCAZIONE POPOLARE. Loro non volevano, in nessun modo, vedere della gente insegnare a donne e uomini poveri della campagna e della città a pensare con le proprie teste. Non volevano vedere i contadini e gli operai pensare insieme, leggere il mondo in cui vivevano, unirsi gli uni con gli altri per fare qualcosa insieme. Unire teste e cuori per trovare un modo di tramutare il Brasile in un Paese giusto e felice.
In questo modo vietarono ogni tipo di lavoro con l’EDUCAZIONE POPOLARE. Fu allora che fu proibito utilizzare il “Metodo Paulo Freire” in tutto il Brasile.
Fu un tempo molto triste quello!
Molta gente fu arrestata in varie parti del Brasile e ciò accadde anche all’insegnante Paulo Freire. Fu imprigionato e dovette andarsene via verso posti lontani. Insieme alla moglie Elza e insieme a figlie e figli, visitò altri paesi e passò più di quindici anni lontano da Recife, dal Pernambuco e dal Brasile che tanto amava.
Prima andò lui, Elza e i figli più tardi.
Inizialmente visse un po’ di tempo in Bolivia . Poi andò in Cile, dove visse con la famiglia per alcuni anni. Bolivia e Cile sono due Paesi dell’America del Sud, come il Brasile e molti altri.
Ebbene, là nel Cile riuscì a fare un buon lavoro di alfabetizzazione di adulti, utilizzando il suo “metodo”. Fu allora che scrisse un libro con questo nome: Pedagogia dell’Oppresso.
Ma anche là, nel Cile, gli uomini che sono contro le persone che pensano per conto proprio e che si riuniscono per cambiare il destino del Mondo vietarono ancora il lavoro dell’insegnante Paulo e dei suoi amici brasiliani e cileni che insegnavano alla gente del popolo. La stessa cosa che era accaduta prima in Brasile, accadde dopo nel Cile.
Paulo Freire era dunque un esiliato.
Sapete cos’è un esiliato? Una persona a cui è vietato vivere nel proprio Paese, abitare nella propria casa, convivere con la propria gente. Qualcuno che è obbligato ad andare in un altro paese e a vivere là. Paulo Freire visse da esiliato per 16 anni.
Molte volte quando lui scriveva delle lettere a amici e parenti del Brasile, parlava della enorme nostalgia che provava. Se avete mai sentito nostalgia per un posto dove siete stati felici, un posto dove non siete più, ma dove volete tornare, provate a immaginare un po’ la nostalgia che Paulo Freire sentiva della sua Recife, di Pernambuco e del Brasile, dove gli fu proibito tornare per molti anni. Ecco cosa scrisse una volta sulla nostalgia del Brasile.
“Nostalgia è esattamente la mancanza della presenza. Nostalgia era la mancanza della mia strada, la mancanza degli angoli brasiliani, era la mancanza del cielo, del colore del suolo, il terreno quando piove, il terreno quando non piove, della polvere che si alza nel Nordeste quando l’acqua cade sulla sabbia, dell’acqua tiepida del mare. Ero obbligato a reprimere questa nostalgia. E al tempo stesso, per creare, avevo bisogno di sentire questa nostalgia…”
Dal Cile viaggiò con la famiglia verso gli Stati Uniti, nell’America del Nord. Da lì si trasferì in Svizzera, dove visse per molti anni. Anche lontano dal Brasile il professor Paulo non smise mai di essere un educatore. Viveva pensando e vivendo l’educazione, quasi tutte le ore di tutti i giorni. Guardate ciò che ha scritto su questo argomento.
“Mi considero professore persino in un angolo di strada. Non ho bisogno del contesto dell’università per essere un educatore. Non è la laurea che l’università mi darà che mi interessa, ma la possibilità di fare questo lavoro…”
Quando Paulo Freire visse in Europa, viaggiò per tutto il mondo…, tranne che in Brasile. Lavorò, aiutando persone dell’Europa, delle Americhe e dell’Africa che volevano lavorare con la educazione di giovani e adulti analfabeti. E il “Metodo Paulo Freire” si diffuse in tutto il mondo. Ma pensate un po’, un insegnante ,impedito a tornare nella sua terra, voluto e cercato in tutto il Mondo.
I libri da lui scritti sulla educazione sono stati tradotti nelle lingue di molti popoli. Una volta si emozionò a vedere uno dei suoi libri, pedagogia dell’oppresso, in giapponese. Chiaramente non capiva una parola di ciò che lui stesso aveva scritto, quando guardava quelle lettere così diverse dalle nostre!
Paulo imparò molto (stiamo sempre imparando cose nuove, anche da adulti, persino da vecchi) con i popoli dell’Africa. Convisse con educatrici ed educatori dei Paesi africani che prima erano stati colonie del Portogallo, proprio come il Brasile.
Conoscete questi nomi: Angola, Mozambico, Capo Verde, São Tomé e Príncipe? Ebbene, in questi Paesi che avevano appena trovato la libertà e dove si parla anche il portoghese, quasi tutte le persone adulte non sapevano leggere-e-scrivere. C’erano scuole solo per pochissimi bambini.
Paulo fu invitato ad aiutare nelle “campagne di alfabetizzazione” e accettò l’invito con molta allegria. Uno dei suoi libri più famosi è Lettere alla Guinea-Bissau, in cui si trovano le lettere che lui inviava agli educatori di questo paese africano.
Il tempo passò e ,tra la fine degli anni’70 e l’inizio degli anni’80, la democrazia iniziò a far ritorno in Brasile. In verità ancora sta iniziando a far ritorno. Sembra che stia sempre ricominciando di nuovo, ricreata un’altra volta, costruita da tutti noi, ogni momento. Fu allora che Paulo Freire potè tornare in Brasile. Se ne andò dal Brasile a 43 anni ed tornò a 58. Era l’anno 1979.
Subito, senza perdere tempo, tornò al suo lavoro di professore con lo stesso amore di sempre, con lo stesso amore per lo studio e per i suoi educandi. Lui, Elza e i figli andarono allora a vivere a San Paolo, la città del santo che ha il suo stesso nome.
Il professor Paulo andò poi a insegnare in due università, una a Campinas e l’altra a San Paolo. E tornò a lavorare con i “movimenti di educazione popolare”.
Era già un educatore conosciuto in tutto il mondo. Già aveva ricevuto diversi premi per i suoi lavori di alfabetizzazione.
Ma sembrava un insegnante alle prime armi: semplice, umile, pieno di domande, attento nel sentire i suoi allievi, nel dialogare con loro, all’insegnare-imparare e all’imparare-insegnare, come lui stesso usava sempre dire.
Ed un giorno egli fu invitato da una donna, anche lei del Nordeste, Luiza Erundina, la sindaca di San Paolo, a dirigere il movimento di alfabetizzazione della città. Fu un altro buon lavoro, che più tardi fu adottato in varie altre città di tutto il Brasile.
Nell’ottobre del 1986, Paulo Freire perse Elza, sua moglie. Avevano vissuto insieme per 42 anni e potete ben immaginare la sua tristezza. Elza era una maestra come lui e molte volte Paulo si ricordava quanto aveva imparato da lei.
Alcuni anni più tardi sposò Ana Maria Araujo. Adesso vi ricorderete. E’ stata lei a scrivere quel pezzo di vita di Paulo al tempo in cui lui, ancora bambino, si spostò da Recife a Jaboatao. Lei era una delle figlie di quel professore del collegio “Oswaldo Cruz”, che permise a Paulo di studiare senza pagare, a condizione che fosse “un buon studente”, ciò che non fu difficile per un bambino che tanto amava i libri e le lettere. Aveva allora 66 anni di età e una lunga barba bianca.
Un giorno, nel maggio del 1997, un giornale francese pubblicò un disegno molto bello. Molta gente si emozionò veramente al vederlo. Era il disegno di un vecchio con pochi capelli e barba bianca, lunghissima. Un vecchio dallo sguardo dolce e lunghe mani imbiancate dal gesso. Era seduto su una sedia che poggiava su una nuvola. Aveva sulle sue gambe due angioletti, uno per lato. E, con un libro in mano, insegnava loro a leggere.
Questo perché il 2 maggio il bambino Paulo ci lasciò e andò a fare il maestro in altri mondi. Aveva 76 anni. Sembrava persino averne di più, ma viveva come uno che ne avesse molti di meno.
Poco prima di lasciarci, disse così ad alcuni amici:
Mi piacerebbe essere ricordato
come qualcuno che amò il mondo
le persone, gli animali gli alberi, l’acqua
la vita!
PENSANDO E VIVENDO, IMPARANDO E INSEGNANDO
Sapete a che cosa assomiglia imparare-a-leggere-e-scrivere?
E’ come arrivare in un orto e conoscere ogni pianta e a cosa serve. Chi non capisce niente di “leggere l’orto” ci entra e vede soltanto un pugno di erbe. Tante piante diverse, ma tutto uguale. Non sa che pianta è ognuna di esse, come la si cucina e con cosa la si mangia.
Chi sa “leggere l’orto” almeno un po’, sa cosa significa “pianta” e cosa “erba”. Sa distinguere la lattuga dalla verza, la carota dalla melanzana, il pomodoro dalla cipolla, il basilico dal prezzemolo, e il prezzemolo dall’erba cipollina. Sa qual è l’uso di ogni pianta: quelle che si mangiano e quelle che non si mangiano. Quelle che servono come cibo e quelle che servono come medicina. Quelle che si mangiano crude e quelle che si mangiano cotte e mescolate con altro cibo. Non è vero?
E chi sa “leggere l’orto” ancora di più, conosce qual è il momento di piantare ognuna di loro. Sa come si cura ogni tipo di pianta, cos’è meglio per ognuna, quali amano l’ombra e quali il sole. Sa quali desiderano più acqua e quali meno.
In questo modo, oltre a sapere che pianta è ognuna dell’orto e sapere come cucinarla, sa anche preparare il terreno, sa seminare, sa coltivarla e sa raccogliere. Sa “rapportarsi con la terra”, sa rendere la terra fertile e buona per le piante. Sa quali sono gli animali utili per le piante dell’orto e quali attaccano le piante dalle radici o dalle foglie.
E’ così per tutte le cose. Perché su questi discorsi di “orto”, “parola” e “mondo” si può sempre imparare qualcosa. E imparando, sempre si può imparare ancora di più. Dopo che la gente comincia a imparare può continuare ad imparare, sempre.
Imparare è senza fine!
Dentro ognuno di noi c’è sempre spazio per un altro piccolo sapere. Prima si credeva che ci fosse una età per imparare e poi un’altra in cui la persona doveva soltanto lavorare e “avere figli”. Ma oggi sappiamo che imparare può durare tutta una vita. Io posso sempre essere qualcuno migliore di quello che sono. Posso sempre imparare dagli altri, dai libri, dal mondo. Posso imparare meglio ciò che già so. E posso sempre ricominciare a imparare ciò che non so.
E molto di tutto ciò si può sapere quando si ha ben imparato a leggere-e-scrivere.
Vi ricordate Cristina? Ebbene, in un’altra lettera scritta per lei dal nostro compagno Paulo Freire scrisse così:
“Le cose cambiano, e noi anche”.
In questo stesso libro lui scrisse che si impara persino dal bambino che si è stato. Sembra strano ma è proprio così. Spesso il bambino che siamo stati e non siamo più è il nostro miglior maestro. Cresciamo e sembra che il bambino o la bambina che siamo stati se ne sia andato. Sia finito.
Ma non è così. Le persone si ricordano sempre chi furono. Si ricordano come vissero quando erano “piccoli”, prima di diventare “adulti”. Si ricordano sempre com’era la vita “in quel tempo”.
E a volte impariamo di nuovo, quando ricordiamo. E’ come se il bambino vissuto in noi prima che diventassimo “adulti” venisse, da lontano, a ricordarci qualcosa e, mentre la ricordiamo, ci insegnasse anche qualcosa. E’ stato per questa ragione che lui scrisse così:
Quanto più mi rivolgo verso l’infanzia lontana, tanto più scopro che ho sempre qualcosa da imparare da essa…
Ecco qui una lezione per tutta la vita!
Fu così che il maestro Paulo, che continuava ad imparare e voleva sempre imparare un po’ di più, per migliorare ogni giorno, decise di inventare un metodo con cui le persone della campagna brasiliana potessero imparare a leggere-e-scrivere. Un modo diverso da quello con cui si imparava nel tempo in cui lui era bambino, con l’abbecedario. La maestra, seria, a ripetere le lettere, parlando e scrivendo sulla lavagna, con il solito libro aperto tra le mani: A-E-I-O-U…, BA-BE-BI-BO-BU, e i bambini a ripetere. Ripetevano come macchine. Ripetevano scrivendo, ognuno sul suo quaderno.
Allora, insieme ad altre e altri insegnanti , Paulo Freire iniziò ad immaginare un “metodo di alfabetizzazione” per gli adulti che non avevano imparato a scrivere e leggere quando erano bambini.
Loro studiarono molto, parlando con altri insegnanti, pensarono… lo sperimentarono nella pratica e ripensarono…, pensarono molto e cominciarono a creare il Metodo Paulo Freire di Alfabetizzazione.
Metodo vuole dire “cammino”. Un metodo serve per dire come si può uscire da un luogo e camminare, con le parole e con le idee, per arrivare in un altro luogo.


Metodo partecipato nel lavoro sociale di comunità

“L’incidenza pedagogica dei rapporti di potere”

A cura di Piera Bettin, Silvia Oliveri, Massimo Zerbeloni *

Il testo costituisce la relazione finale sul lavoro di gruppo al convegno nazionale PAULO FREIRE – Re-inventando un messaggio, tenuto a Milano, Centro Pime, il 25 maggio 2002

Attualizzare il pensiero di Paulo Freire, re-inventare nuovi significati in relazione alle problematiche che ruotano intorno alle metodologie d’intervento nel lavoro sociale di comunità, è stato il tema affrontato dalla nostra sessione di lavoro.
Il gruppo di partecipanti, composto prevalentemente da educatori provenienti da diverse realtà associative, ha espresso il bisogno di comprendere e di appropriarsi degli elementi di base che, a partire dalla pedagogia freiriana, hanno ispirato, diventando patrimonio comune, l’intervento di comunità, nei suoi aspetti metodologici, come pratica di promozione del benessere sociale.
Per comprendere maggiormente la metodologia di P. Freire e vederne alcuni aspetti di attualizzazione, si è concordato di tradurne in pratica alcuni passaggi metodologici, durante lo svolgimento del nostro incontro; ciò a partire dall’utilizzo di semplici strumenti da cui far scaturire riflessioni e contributi evocati da una documentazione fotografica che presentava alcuni momenti reali di un intervento di comunità.
Nel corso del lavoro, i partecipanti si sono riuniti, per scelta spontanea, intorno alle parole/immagini, messe a disposizione, per loro più significative; ogni sottogruppo ne ha esplorato il contenuto evocato, in relazione alla propria esperienza e realtà lavorativa. L’attività di interscambio e di confronto tra le persone, che ne è seguita, ha consentito di socializzare il pensiero e la conoscenza soggettivi, ciò al fine di creare un linguaggio condiviso e una rete di significati arricchiti dai contributi individuali e trasformati in patrimonio collettivo.
LA RICERCA-AZIONE ALLA BASE DEL CONFRONTO
La Ricerca-Azione (RA), come metodologia d’intervento nel lavoro di comunità, è stata oggetto, in fase iniziale, nel grande gruppo, di un confronto tra i partecipanti, utile alla condivisione del significato che le veniva attribuito e allo stabilirsi di un comune denominatore cui ricondurre, successivamente, i significati elaborati nei diversi sottogruppi. Tale momento si è reso necessario, poiché le realtà individuali che emergevano durante la discussione, proponevano rappresentazioni e pratiche molto differenziate tra loro del lavoro di comunità, non tutte riferibili propriamente alla metodologia della Ricerca-Azione, che vede nell’auto-promozione del benessere sociale e nella partecipazione attiva dei soggetti coinvolti, il suo fine ultimo.
Il lavoro di comunità è un approccio che affonda certamente le sue radici nel lavoro di P. Freire e nell’Educazione popolare latino-americana, ma anche in altre pratiche sociali e politiche (Community Development USA, Animazione Sociale, Psicologia delle Organizzazioni, azione politico-sociale di diversi movimenti che emergono sullo scenario negli anni ’50, ’60, del ‘900: i neri americani, il femminismo, gli studenti, ecc.) e si avvale dell’apporto disciplinare di varie scienze umane (antropologia, sociologia, urbanistica, economia, psicologia sociale).
In particolare negli anni ’60 e ’70 si è affermata sulla scena americana la psicologia di comunità, psicologia sociale applicata dove l’aspetto prevalente è la rilevanza emancipatoria (Holzkamp), ovvero la capacità di incidere nella realtà promuovendo processi di partecipazione e di trasformazione sociale.
Tensioni ideali dunque, ma anche ricerca di soluzioni non puramente ideologiche ai problemi: chi si riconosce in questo approccio si avvale di conoscenze e metodologie d’impronta sistemica (interdipendenza delle parti per rapporto al tutto) ed ecologica (il miglioramento della qualità della vita come livelli di compatibilità tra soggetti ed ambiente dove essi vivono) e vuole progettare e valutare i processi di cambiamento (planned change) senza scindere la ricerca e l’acquisizione delle conoscenze dall’azione che intervenga sulla realtà sociale in chiave trasformativa. Questa è l’esigenza a cui risponde l’action-research (Lewin) come metodologia d’intervento nel lavoro di comunità.
Durante la discussione sono stati, dunque, riconosciuti alcuni punti chiave, istitutivi della RA, tra cui:
o la presa di coscienza della propria condizione, da parte dei soggetti coinvolti nell’azione;
o l’identificazione e l’analisi dei problemi reali e sentiti;
o il riconoscimento dei diversi rapporti di potere che influenzano e condizionano l’azione;
o l’identificazione e la presa in carico delle strategie di soluzione;
o il monitoraggio-controllo delle soluzioni adottate.
Rispetto alla metodologia della RA, i partecipanti si sono riconosciuti nella condivisione unanime della necessità di promuovere la partecipazione attiva dei soggetti coinvolti e nella determinazione, da parte loro, delle azioni da implementare per il miglioramento delle proprie condizioni di vita; hanno, inoltre, riconosciuto in tale aspetto, la peculiarità di una pratica molto spesso citata, in ambito d’intervento sociale territoriale, ma altrettanto frequentemente confusa con altre tipologie di ricerche, più classicamente centrate sulla presenza e sulle competenze di esperti in materia. Da qui la necessità di ribadire ulteriormente l’estraneità della RA dalle ricerche che utilizzano i dati emersi e la loro interpretazione da parte di “esperti esterni”; culminando in un intervento pilotato da alcuni a favore di altri, sottraendo in questo modo, ai diretti interessati, la possibilità di assumere il protagonismo ed il controllo sulla propria vita come azione trasformatrice.
IL RUOLO DELL’OPERATORE SOCIALE
Secondo l’approccio della RA, il ruolo dell’operatore/ricercatore professionale si qualifica come facilitatore dei processi ed in qualche modo viene “ridimensionato” da questa pratica d’intervento; i problemi vengono individuati congiuntamente con i soggetti che li sentono e li vedono, in modo tale che vengano presi in carico dai soggetti stessi, i quali possono così sviluppare quel senso di responsabilità, di proprietà dei problemi, che consentono sia l’acquisizione e la rivendicazione di un maggior potere, sia l’assunzione di nuovi comportamenti ed atteggiamenti più propositivi.
Il potere del ricercatore sull’oggetto della ricerca, dell’educatore sull’educando, del formatore sul formando; ma anche atteggiamenti e modalità autocratiche di coordinamento delle equipe di lavoro, relazioni verticali e gerarchiche dentro l’organizzazione che promuove l’intervento, devono lasciare il posto al dialogo vero, alla responsabilizzazione, alla co-educazione, alla valorizzazione delle persone, alla crescita ed arricchimento reciproco.
A questo proposito, Freire nel suo libro La Pedagogia degli Oppressi ci parla di dialogo ed anti-dialogo come matrici di teorie opposte sull’azione culturale, perché l’anti-dialogo serve all’oppressione (che passa per la conquista, il dividi et impera, la manipolazione, l’invasione culturale), mentre il dialogo sottende alla liberazione (attraverso la collaborazione, l’unione, l’organizzazione, la sintesi culturale).
Nel discorso di Freire troviamo una serie di spunti che ci rimandano facilmente al quotidiano lavoro degli operatori sociali e culturali, inseriti in progetti, che mirano espressamente allo sviluppo di comunità o che, comunque, tengono conto di questa dimensione; in particolare, ad esempio, in quanto agiscono nelle periferie urbane delle grandi città. Vi troviamo, altresì, il richiamo alla prassi, ovvero alla necessità di tenere insieme riflessione ed azione, che non vanno mai disgiunte nell’azione di cambiamento sociale e culturale di cui vogliamo essere testimoni e portatori. Per non dimenticare l’atteggiamento dell’operatore che se sposa una prospettiva di azione dialogica e trasformatrice “… riconosce necessariamente agli oppressi un compito fondamentale nel processo della trasformazione, …ci sono dei soggetti che s’incontrano per dare un nome al mondo … Qui nessuno disvela il mondo all’altro in senso proprio, e anche quando un soggetto inizia lo sforzo di disvelamento agli altri, è necessario che questi divengano soggetti dell’atto di disvelare…”.
Evitare quindi di porsi come i depositari della conoscenza, aprirsi al dialogo autentico con la ricchezza di esperienze e conoscenze che un territorio umano esprime, scoprire, insieme – con gli abitanti e le organizzazioni locali – inedite possibilità d’azione e significati altri, ascoltare in modo attivo, favorire l’emersione, la valorizzazione delle potenzialità dei soggetti coinvolti. Come operatori, consapevoli del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, non temere il coinvolgimento emotivo che può, altresì, svelarci importanti aspetti della situazione e di noi; magari a partire dalla condivisione di una comune condizione di “oppressi urbani” che, afferma Freire, “…si trovano in un contesto di apertura in cui il centro di comando (rispetto al contesto rurale), diventa pluralista e complesso…(ma) sottomessi ad una specie di impersonalità oppressiva”.
I TEMI GENERATORI
Ricercando il filo generatore della pratica freiriana le persone, hanno accolto, dunque, il suggerimento di aggregarsi intorno ad alcune parole/immagini soggetivamente significative, da cui iniziare a costruire un linguaggio condiviso intorno ad un territorio simbolico di acquisizione: “la partecipazione nel lavoro sociale di comunità”.
Avvalorando l’approccio metodologico d’impronta freiriana ci siamo avvalsi, durante la sessione di lavoro, di un setting (per quanto logisticamente possibile) destrutturato che consentisse l’interazione vis a vis, tra i presenti, e di strumenti che aprissero al dialogo, sovvertendo i ruoli classici della dinamica formatore-formandi, ciò ha consentito l’emersione delle reciproche aspettative, la messa in comune di esperienze e competenze, nonché un clima positivo e di collaborazione.
I temi generatori della discussione, nei quattro sottogruppi che si sono formati, sono stati:
o Dal conflitto all’azione trasformatrice
o La condivisione di obiettivi
o Il disagio come fonte di potere
o Il dialogo come principio
Queste parole chiave, unitamente alle fotografie che le accompagnavano svolgevano la funzione di stimolo iniziale su cui, a partire da evocazioni, da libere associazioni e dalle rispettive esperienze, le persone hanno dato avvio al dialogo, al confronto e alla discussione nei relativi sottogruppi, memorizzandone i contributi e producendo i materiali qui di seguito riportati. Gli elaborati sono poi stati presentati e commentati in plenaria.
Durante la socializzazione, in plenaria, sono stati presentati i risultati della discussione/confronto avvenuta nel piccolo gruppo, riportati schematicamente di seguito:
DAL CONFLITTO ALL’AZIONE TRASFORMATRICE
o Il conflitto è stato percepito come motore / energia che mobilita l’azione;
o Spesso s’investe energia per bypassare, evitare il conflitto, vi è il timore di entrare in contatto con la diversità, fonte e origine del conflitto;
o Affrontare il conflitto costa fatica, così come crescere e sperimentare;
o Il conflitto può essere considerato una dimensione relazionale, in quanto tale è inevitabile;
o La sua gestione può portare a soluzioni non violente;
o Il conflitto può così diventare una risorsa per il cambiamento sociale e relazionale;
o Il cambiamento auspicato affronta la relazione “oppressore-oppresso”, riconoscendone le contraddizioni interne e differenziando le rispettive posizioni.
o E’ necessario esplorare anche il conflitto interno generato dalla dinamica “oppressore-oppresso”, in particolare l’attrazione che l’oppressore genera sull’oppresso.
o Il conflitto interno all’uomo, precede la sua esplicitazione nella relazione, la modalità con cui viene esternato, caratterizza il tipo di relazione che intercorre tra le parti coinvolte e ne definisce il potere d’influenzamento nella reciprocità, nonché le eventuali diversità di status. La modalità di soluzione del conflitto determinerà la qualità della relazione futura.
o Nel contesto micro-sociale, il lavoro con altri, facilita l’insorgenza di conflitti ma, nel contempo il conflitto diventa strumento di attivazione, di meta-riflessione sul lavorare insieme.
o La dimensione macro-sociale, ci costringe continuamente a vivere continuamente immersi nel conflitto, ciò rende più difficoltosa la possibilità di una sua presa in carico; spesso a questo livello i conflitti vengono apparentemente risolti senza l’apporto di alcun cambiamento reale.
o La gestione del conflitto attraverso la mediazione, consente di tra-sformare la realtà, dando vita a soluzioni inaspettate e creative che consentono di ottenere risultati soddisfacenti per le parti in gioco, salvaguardando la qualità della relazione.
CONDIVISIONE DI OBIETTIVI
o Fare le cose insieme, in modo concorde, in direzione di una meta esplicitata e condivisa.
o Agire in collaborazione con altri, consente di raggiungere risultati più soddisfacenti che da soli, poiché nel confronto, la scoperta della con-divisione del problema e la ricerca di possibili soluzioni garantisce una maggiore efficacia del processo e del risultato.
o La condivisione degli obiettivi diventa dunque:
o Premessa: indispensabile per il lavoro di comunità
o Meta: speranza per l’azione di cambiamento
o Fase: primaria che, nel suo perseguimento, accompagna l’azione in un processo senza fine.
o Stimolo alla partecipazione che alimenta la motivazione dei soggetti a perseguire gli scopi comuni.
o Diventa elemento fondamentale la competenza comunicativa, necessaria per la comprensione reciproca durante l’inter-scambio di idee.
o Senza una reale condivisione degli obiettivi, l’azione sociale viene sorretta dal senso del dovere e non invece dal desiderio di soddisfare i propri bisogni.
o Il processo di elaborazione e l’esplicitazione degli obiettivi aumentano la consapevolezza dei soggetti e garantisce dal rischio di adesioni doveristiche all’azione.
o Gli obiettivi vengono concordati nella fase del contratto iniziale, ciò favorisce l’assunzione di responsabilità.
o Una meta chiara e definita, orienta il gruppo all’azione, aumenta il sentimento d’appartenenza facilitando la coesione e l’identità gruppale.
IL DISAGIO COME FONTE DEL POTERE
o Il disagio sociale può diventare il motore che muove energia ed alimenta il desiderio/speranza di cambiamento.
o Il processo d’identificazione ed analisi delle possibilità / opportunità di trasformazione può far cambiare la percezione di debolezza / impotenza, rispetto alla propria condizione problematica, in risorsa che genera potere.
o Il disagio sociale può essere visto come una condizione da prevenire nel futuro, nel contempo la presa in carico dei problemi può produrre consapevolezza e crescita dei soggetti collettivi coinvolti.
o E’ possibile che il disagio socializzato, di un individuo, si trasformi in fonte di potere per la collettività.
DIALOGO COME PRINCIPIO
o Si fondamenta sulla capacità di ascolto.
o E’ il principio fondante della relazione.
o Comunicare significa mettere in comune, condividere significati.
o Nel processo di comunicazione viene coinvolto anche il piano del comportamento, il non verbale.
o Dal dialogo prendono avvio il processo di conoscenza e quello dell’azione.
o Nell’incontro di soggettività, scaturiscono e si riconoscono le differenze, da legittimare come dato imprescindibile per una cultura della pluralità.
Contesti rilevanti per l’utilizzo del dialogo come principio:
– Intervento educativo con gli adolescenti;
– Interventi in comunità terapeutiche;
– Con la committenza istituzionale;
– Nella soluzione di problemi in quartiere/comunità che interessano la qualità della vita.
CONCLUSIONI
Il poco tempo rimastoci a disposizione non ha consentito un adeguato approfondimento degli stimoli emersi nei sottogruppi, tuttavia durante la presentazione in plenaria, alcuni aspetti si sono ulteriormente precisati e chiariti:
– Il cambiamento pianificato della realtà attraverso strategie normativo-educative (ad es. la formazione con metodi attivi), incide su atteggiamenti e valori, su modelli culturali, stili di rapporto interpersonale, ecc., presuppone in qualche misura, un clima relazionale di tipo collaborativo. Tuttavia se nel sistema / comunità, non esiste un consenso di base, può essere necessario fare scelte ed esercitare pressioni fra interessi diversi in conflitto, puntando sull’emersione dello stesso quale motore del cambiamento (ovviamente senza ricorrere alla violenza, si può, infatti, apprendere a gestire il conflitto, in questo senso la formazione e l’educazione diventano strumenti funzionali all’acquisizione delle necessarie competenze).
– La rilevanza data alla partecipazione ed al ruolo attivo dei cittadini, della comunità, anziché alla figura dell’esperto professionista, è coerente con l’obiettivo primario del lavoro di comunità: produrre cambiamento non solo a partire dal mondo interno dei soggetti o dalle condizioni esterne, ma anche mettendo le competenze individuali al servizio della comunità locale, affinché questa, attraverso un processo di progressivo empowerment, si riconosca come soggetto, valuti e stimi le proprie capacità e le proprie possibilità di modificare ambiente / condizioni, si attivi ed inizi ad affrontare i propri problemi ed a soddisfare i propri bisogni, in quanto comunità competente.
– Lo sviluppo di comunità od organizzazione di comunità è una possibile strategia di cambiamento-apprendimento (vs. altre strategie distrattive od adattive) che risponde a questa idea del lavoro di comunità valorizzando il conflitto e la partecipazione attiva; nel suo dispiegarsi essa prevede situazioni ed azioni attraverso le quali gli attori sociali (individui, famiglie, gruppi, associazioni, altre organizzazioni, ecc.) progressivamente:
o Sono coinvolti (toccati da un evento / problema divengono attivi);
o Hanno occasione di contare, esercitare potere, prendere decisioni;
o Entrano tra loro in connessione reciproca (comunicano, riconoscono interessi comuni o complementari, costruiscono rete sociale e collaborano).
– Gli attori sociali della / nella comunità, possono sperimentare la partecipazione nel duplice significato di sentirsi parte, appartenere ma anche di contare, esercitare potere, influenzamento, poter decidere.
Incidere, come soggetto collettivo, sul proprio contesto di vita, lottare contro l’oppressione, per i diritti sociali e di cittadinanza , per un ambiente sostenibile ed una vita più umana è secondo P. Freire possibile solo se si evitano “…forme di azione che focalizzano aspetti parziali e intensificano una maniera di esistere propria delle masse oppresse,…..e che consiste nel percepire un particolare come se fosse visione d’insieme,…..”, rendendo “…sempre più difficile la percezione critica della realtà…” e mantenendo “…gli oppressi isolati dalla problematica di altri oppressi di altre aree che si trovano in rapporto dialettico con loro..”.


Metodo partecipativo nel lavoro sociale di comunità

Maggio 2002 – Un’esperienza: L’occupazione delle scuole elementari “D. Romagnoli”, quartiere Pilastro, di Bologna, contro la riforma Moratti e l’aziendalizzazione della scuola.

Piera Bettin, Silvia Oliveri, Massimo Zerbeloni

L’esperienza è stata presentata al convegno nazionale dedicato a Paulo Freire tenutosi a Milano il 25 maggio 2002. Il lavoro vive nell’interazione tra testi di Freire e immagini dell’occupazione partecipata della scuola. Per difficoltà informatiche non ci è possibile per ora riprodurlo su questo supporto.

Le immagini, unitamente alle “parole generatrici”, hanno ispirato, attraverso l’evocazione, i lavori di gruppo dei partecipanti al convegno secondo il metodo “Pratica – Riflessione – Azione” che ritroviamo nella pedagogia di P. Freire.
I disegni sono di Gemma Reggimenti e sono tratti dalle foto che hanno accompagnato la prima versione dell’esperienza.
“LA MASSIMA ASPIRAZIONE DELL’EDUCAZIONE “DEPOSITARIA” [termine che sottintende l’insegnamento nozionistico] E’ PARLARE DELLA REALTA’ COME QUALCOSA DI FERMO, STATICO, SUDDIVISO E DISCIPLINATO, O ADDIRITTURA DISSERTARE SU ARGOMENTI COMPLETAMENTE ESTRANEI ALL’ESPERIENZA ESISTENZIALE DEGLI EDUCANDI. ESSA NON SVELA LE RAGIONI CHE FANNO DELL’UOMO UN ESSERE IN DIVENIRE NEL MONDO, PER CUI NE INIBISCE LA CREATIVITA’, PREPARANDOLO AD ADATTARSI ALLA REALTA’ DI FATTO.”
(P. Freire, LA PEDAGOGIA DEGLI OPPRESSI


Gli autori dei testi e dei disegni

Piera Bettin insegna nella scuola dell’infanzia Canova di San Lazzaro e è operatrice nella coop Grado 16
Silvia Oliveri, è operatrice nella coop Grado 16.
Alessandro Palmi insegna chimica nell’Itis “Belluzzi” di Bologna
Gemma Reggimenti insegna nella scuola dell’infanzia di Casalecchio di Reno (Bo)
Massimo Zerbeloni, è operatore nella coop Grado 16.


Chi è Carlos Rodrigues Brandao

[a cura del MST]

Nacque a Rio de Janeiro nell’aprile del 1940. Lì visse per 26 anni. Poi per un po’ di tempo a Brasilia e Goiania. Oggi vive parte del suo tempo a Campinas, San Paolo, e parte nella sua Rosa dei Venti, nel sud del Minais Gerais.
Viaggia anche per tutto il Brasile, facendo corsi per educatori e educandi.
Fu molto amico di un altro educatore molto amico nostro, Paulo Freire, che morì nel maggio del 1997. Lavorarono insieme nei movimenti e nelle esperienze di educazione popolare.
Brandao è professore, ricercatore e poeta. Gli piace molto studiare, scrivere, fare poesia e vivere con la gente della campagna.
Il MST vuole esprimere il profondo sentimento di gratitudine da parte della grande famiglia dei Sem terra del Brasile per la solidarietà, il lavoro volontario e l’affetto che stiamo ricevendo dal compagno Carlos Rodrigues Brandao.

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