La didattica modulare nella scuola dell’autonomia

di Luca Castrignanò

Il presente saggio, inedito, è stato preparato nel 2000, quando era ancora al governo il Centrosinistra, come sviluppo della relazione omonima per il convegno nazionale Autonomia scolastica, 12-13 maggio 2000 organizzato da Cesp-Cobas (Atti in Cesp-Cobas, Scuola-azienda e istruzione-merce, Viterbo, Massari ed., 2000). Viene qui proposto nella versione originale senza ulteriori rielaborazioni. (La redazione)

Il tema della didattica modulare è divenuto nel corso degli ultimi anni un riferimento ricorrente e quasi ossessivo nella definizione delle linee guida della riforma della scuola.

Il suo significato specifico rimane tuttavia ancora molto indeterminato, assumendo sfumature molto diverse a seconda del punto di vista da cui viene affrontato. Il modulo indica per qualcuno una riformulazione del programma disciplinare per macro-unità definite e concluse, per altri la definizione di percorsi multidisciplinari, per altri la progettazione di trasformazioni sul piano organizzativo, per altri un mero cambiamento di terminologia che sostituisce senza sostanziali cambiamenti la progettazione per unità didattiche.

Al livello delle singole scuole la proposta di introdurre la didattica modulare parte quasi sempre dall’alto: il capo d’istituto e talvolta qualche collaboratore o la funzione obiettivo che si occupa del POF. Il tema è infatti intimamente connesso con quello dell’autonomia scolastica e al pari di questa trasformazione in atto nel mondo della scuola è frutto di un progetto definito a livello centrale e comunicato alle scuole in modo strumentale e demagogico (da cui un certo paradosso semantico del termine “autonomia”). Si tratta di tematiche su cui la grande maggioranza degli insegnanti non si è ancora cimentata in una discussione seria e approfondita, limitandosi per lo più ad accettare passivamente e talvolta di malavoglia i progressivi mutamenti avvenuti nell’organizzazione del sistema scolastico.

Il regolamento dell’autonomia prevede nell’articolo 4, riguardante l’autonomia didattica, la progettazione di moduli che coinvolgano alunni di più classi e pone la questione in diretta connessione con quella dell’autonomia organizzativa.

Mi sembra importante cercare di definire gli elementi più significativi di novità distinguendoli da quelli inerenti a una progettazione didattica già sperimentata nella scuola del passato, seppur supportata da un diverso corredo terminologico (le classi aperte, gli itinerari didattici pluridisciplinari, i progetti scuola-territorio non erano certo impensabili e impraticabili prima dell’autonomia).

Suddividerò per comodità espositiva il discorso in tre aree tematiche (il piano didattico, il piano organizzativo, il sistema integrato) cercando di leggere più gli elementi di tendenza e i modelli culturali proposti che le specifiche e ancora molto limitate trasformazioni avvenute nelle scuole.

Il modulo come novità didattica

La parola modulo, anche in ambito extradidattico indica una parte isolabile di un tutto, qualcosa di compiuto in sé che può essere riprodotto e trasferito in contesti diversi.

Leggiamo due definizioni tratte dal progetto di sperimentazione dell’autonomia Sistemi di qualità e dalla Proposta di un curricolo verticale di Storia del Laboratorio nazionale di didattica della storia:“Il modulo è una parte significativa, omogenea e unitaria di un processo formativo più ampio; è una parte del tutto, ma completa ed esaustiva, in grado di assolvere ben precise funzioni, ma anche ben precisi obiettivi cognitivi e non, capitalizzabili, spendibili, documentabili”.”[…] Da un punto di vista metodologico bisognerà pensare ad un CURRICOLO ORGANIZZATO PER MODULI, che consentirà una più agevole certificazione dei crediti formativi di ogni alunno personalizzandone l’iter scolastico. Questo significa che la programmazione tematica:non potrà snodarsi secondo una serie di contenuti senza soluzione di continuità;dovrà essere scandita da pochi nuclei tematici;

dovrà organizzare ogni modulo secondo una propria esaustività in modo da facilitarne la certificazione dell’apprendimento […]”

Dal punto di vista didattico il modulo può essere definito come una unità omogenea all’interno del percorso di una o più discipline, che si propone di perseguire obiettivi definiti, verificabili e certificabili. All’interno del curricolo i gruppi disciplinari dovranno identificare le unità modulari di cui esso si compone e le relazioni sequenziali o parallele che legano i singoli moduli tra loro, avendo cura di evidenziare gli aspetti di propedeuticità che alcuni moduli possono eventualmente assumere per lo sviluppo successivo del curricolo. In fase di progettazione il momento della verifica assume un ruolo fondamentale perché da esso dipende la certificabilità delle conoscenze e competenze acquisite.

Il criterio della certificabilità domina e soffoca un’esperienza così ricca e complessa come quella della relazione insegnante-studente che non può, se non in piccola parte, essere ricondotta a criteri di valutazione oggettivi. Si tratta di una vera e propria inversione mezzi-fini; il momento della verifica finisce per sovradeterminare l’intero percorso didattico, orientandolo alla preparazione per le prove specifiche che si dovranno sostenere (di questa distorsione ne sanno qualcosa gli insegnanti impegnati da anni nella preparazione per le prove strutturate degli esami di qualifica e, dall’anno scorso, gli insegnanti costretti a trasformare la propria programmazione del triennio in un training di addestramento alle tipologie di prove introdotte con il nuovo Esame di Stato).

Il momento della valutazione ha letteralmente invaso lo spazio della didattica pretendendo di porsi come sua ultima ratio. Questo aspetto non può non lasciare disorientato chi è abituato a sperimentare che la ricchezza del rapporto educativo insegnante-studente si dispiega pienamente proprio laddove diminuisce l’importanza della valutazione e si afferma una motivazione gratuita all’apprendimento. Questo modello totalizzante che pretende di misurare la relazione educativa in termini quantitativi coinvolge l’intero sistema scolastico assoggettando i percorsi degli alunni così come il lavoro degli insegnanti al criterio dell’efficacia aziendalistica. Se per quanto riguarda questi ultimi appare chiaro che l’enfasi posta sull’idea di valutazione mira a produrre meccanismi competitivi a partire da criteri di misurazione del lavoro che privilegiano gli aspetti tecnico-organizzativi e di rappresentanza (ciò che assicura visibilità e pubblicità alle scuole) a svantaggio della concreta pratica didattica e della costruzione quotidiana della relazione educativa con gli studenti, per quanto riguarda la formazione degli alunni, come vedremo meglio più avanti, la centralità della valutazione-certificazione delle abilità possedute va colta al livello delle trasformazione complessiva del rapporto scuola-lavoro e dell’importanza che assumono i cosiddetti crediti scolastici nella regolazione dello scambio tra ambiti fino ad ora relativamente separati e indipendenti come la scuola, l’istruzione professionale, l’apprendistato e il lavoro.

Dal punto di vista contenutistico questa ansia di misurazione oggettiva delle performance di apprendimento, di chiara impronta comportamentistica, si intreccia confusamente con l’istanza cognitivistica di spostare l’attenzione sui processi di apprendimento piuttosto che sui risultati. Moltissime riflessioni pedagogiche correnti insistono sul fatto che gli obiettivi del modulo non sono tanto conoscenze quanto competenze. Si vuole verificare una competenza formale applicabile a contesti diversi: non questa o quella conoscenza specifica ma la capacità di acquisire ed utilizzare contenuti informativi diversi e dunque la produzione di schemi metacogitivi che permettano di governare il processo di apprendimento. La drastica riduzione dei programmi a pochi nuclei tematici indica una diminuzione del peso dei saperi, delle singole conoscenze a vantaggio delle competenze, del saper fare. Ciò che interessa non è, ad esempio, la conoscenza di un documento storico specifico, ma la capacità di leggere e ricavare informazioni da un documento storico in genere. Obiettivo prioritario del modulo dovrebbe essere la definizione delle competenze che si vogliono sviluppare e l’individuazione delle tipologie di verifica atte a certificarne il possesso (questa vorrebbe essere una delle novità del nuovo esame di stato che ha introdotto tipologie di prove in cui si verificano le competenze e contano poco le conoscenze).

In ultima analisi il punto di vista che ho schematicamente chiamato cognitivista è riassunto nel motto “apprendere ad apprendere” ricorrente nei documenti che, nell’ultimo decennio, si sono proposti di indicare la via per una trasformazione radicale del sistema scolastico.

Al di là di una attenzione legittima ai processi cognitivi che rendono possibile l’acquisizione di conoscenze e al ruolo autonomo che il soggetto assume nella definizione delle sue specifiche strategie di apprendimento, sembra emergere da questa impostazione una totale svalutazione del sapere, identificato con il nozionismo, a vantaggio esclusivo delle tecniche didattiche. La riflessione metodologica svuotata del riferimento ai contenuti disciplinari specifici rischia cioè di divenire una vuota astrazione e di trasformare l’attività docente in un fatto meramente tecnico. Il ruolo del sapere nella definizione di un processo di maturazione critica dell’alunno viene in questo modo totalmente misconosciuto e la miseria culturale imputata al nozionismo enciclopedico si ripresenta sotto l’aspetto del vuoto tecnicismo, dell’esclusione degli elementi più ricchi e vitali dell’apprendimento.

I saperi e le competenze accreditabili sono quelli soggetti a misurazione quantitativa; la capacità comunicativa, la capacità critica, la creatività, il modo di relazionarsi agli altri, vengono necessariamente estromessi dallo scenario didattico o imbrigliati in pacchetti didattici e in griglie di valutazione grotteschi. Il motto metacognitivo “apprendere ad apprendere” appare così svuotato di ogni riferimento alle soggettività concrete dei discenti, ai loro desideri e bisogni, e ridotto a un meccanismo astratto di accumulazione di conoscenze-competenze-crediti predisposto per l’intero arco di vita degli alunni. Tornerò più avanti sul significato di questo modello all’interno delle trasformazioni del sistema produttivo e sul significato che la conoscenza assume in quanto capitale.

La matrice del progetto modulare sembra ricalcare il modello informatico: singoli pacchetti formativi personalizzati che comprendono verifiche per ogni singola tappa e sono inseribili in percorsi curriculari diversi (è evidente in questo senso il nesso tra il modello proposto e lo sviluppo del business della formazione a distanza1). La relazione come spazio concreto in cui si dispiega il percorso di apprendimento viene così a perdere la sua centralità, scompaiono gli elementi emotivi per lasciar posto a una procedura tecnica. Il percorso scolastico si delinea come un cumulo frammentario di conoscenze-competenze perdendo ogni riferimento alla soggettività degli alunni.

Che cosa imparare? A quale scopo? In vista di quale utilizzo? Sono domande che tendono a scomparire dal quadro di riferimento.

Il modulo come novità organizzativa

Ogni progettazione modulare deve indicare con precisione i destinatari. Fino ad oggi avremmo pensato a precisare l’ordine di scuola, l’eventuale indirizzo, la classe o le classi coinvolte.

Ciò che prima non si poteva fare era immaginare percorsi di apprendimento che prescindessero dal gruppo classe. Nella sua ipotesi di trasformazione più ambiziosa l’autonomia profila un itinerario scolastico che destruttura l’unità classe e profila una successione di gruppi definiti in modo contingente dalla condivisione del modulo specifico. L’insieme degli studenti viene ripartito secondo una modalità che ricorda un po’ la frequenza dei corsi universitari, con il cumulo dei crediti (relativi al conseguimento degli obiettivi fissati per ciascun modulo) certificati su un libretto personale. Alcuni hanno accolto positivamente questo elemento di novità pensando che la taratura di moduli di recupero per gli allievi in difficoltà possa produrre una situazione più stimolante per l’apprendimento. In modo più o meno esplicito affiora a questo punto la problematica dei gruppi di livello. La persistenza di dati allarmanti che riguardano il numero dei fallimenti scolastici induce qualcuno a pensare che si debbano costituire gruppi omogenei per capacità, conoscenze e competenze in modo tale da programmare attività più specifiche e mirate (ciò garantirebbe allo stesso tempo proposte didattiche adeguate a valorizzare gli alunni eccellenti).

Le obiezioni che questa ipotesi solleva si articolano su diversi piani.

La rottura del gruppo classe implica la perdita di un punto di riferimento essenziale per lo sviluppo della personalità degli allievi nella loro globalità. In particolare mina la possibilità di pensare una progettualità che si riferisca alla dimensione socio-affettiva riproponendo il primato della sfera cognitiva (nessuno prende in considerazione la variabile relazionale nella definizione di un gruppo di livello e probabilmente non avrebbe nessun senso salvo quello di assumere principi di disciplina militareschi o di riproporre i gruppi dei disadatti alla scuola).

La definizione di gruppi omogenei tende a cristallizzare le differenze individuali in gruppi di appartenenza che condizionano a priori il processo di strutturazione dell’identità senza peraltro garantire un miglioramento dei risultati sul piano degli apprendimenti specifici, come dimostrano le situazioni fortemente omogenee dal punto di vista del disagio sociale.

L’esperienza dell’integrazione degli alunni portatori di handicap viene disconosciuta e trasfigurata. Essa si fondava sulla valorizzazione di ogni differenza individuale e sull’importanza della coesistenza delle diversità di ciascuno. La scelta del gruppo di livello vuole darsi la maschera del rispetto delle differenze ma opera in realtà uno slittamento dal piano della differenza individuale, irriducibile e non misurabile, a quello della differenza dei gruppi, foriera di nuove ghettizzazioni. L’importanza per tutti dell’inserimento degli alunni con handicap in classe è stata quella di portare scompiglio nelle mappature delle identità sociali, incrinando le barriere tra sé e gli altri. Essa è stata una risorsa per tutti proprio nella misura in cui ha messo in luce una comunione più profonda di quella fondata sull’omogeneità (di status, di aspetto fisico, di nazionalità, di capacità scolastiche, ecc.), una comunione fondata sull’idea che ciascuno è portatore di una singolarità e che proprio perché siamo tutti diversi possiamo essere tutti uguali. Si tratta di una esperienza di democrazia reale che la scuola italiana dovrebbe rivendicare a livello europeo come elemento di forza e di civiltà, ed è stata praticabile solo grazie al rifiuto dell’omogeneità dei livelli di apprendimento come criterio per la definizione dei gruppi di allievi. La pratica di una didattica personalizzata che tenga conto delle potenzialità specifiche di ciascuno andrebbe estesa a tutti gli alunni, a prescindere dalla certificazione dell’handicap, in alternativa alla falsa idea di una uguaglianza misurata su obiettivi standard che riproduce e acuisce all’interno della scuola gli svantaggi sociali di partenza. Bisognerebbe pensare a una forte incentivazione delle risorse per consentire percorsi di compresenza di più insegnanti tali da garantire una effettiva praticabilità della didattica personalizzata all’interno di un contesto plurale e rifiutare così con forza l’ipocrisia di chi maschera la riproposizione di gruppi differenziali per il rispetto dei bisogni e delle differenze individuali.

Infine, una conseguenza inevitabile della dissoluzione del gruppo classe è il venire meno della centralità del suo organo correlato, il Consiglio di classe. Esso rappresenta il nucleo primario della collegialità, il luogo in cui la valutazione individuale di ogni insegnante deve misurarsi con quella degli altri, assumere un punto di vista superiore che riguarda la globalità del percorso di ogni alunno. L’organizzazione modulare, per quanto possa prevedere progetti pluridisciplinari, si fonda sulla scomposizione del percorso scolastico in unità chiuse perdendo il senso del movimento complessivo e del confronto aperto tra colleghi. Quel sano buon senso che imponeva a qualsiasi insegnante di tenere conto della discrezionalità e della parzialità del suo punto di vista valutativo di fronte ad un fenomeno complesso come la relazione di apprendimento, viene sostituito dalla pretesa di una valutazione oggettiva e per questo insindacabile, che ciascuno può formulare per proprio conto attenendosi ad un piano mistificante di neutralità tecnica.

Il sistema integrato

La suddivisione del percorso formativo in unità chiuse e indipendenti sembra indicare il corrispettivo scolastico di quella frammentazione della carriera lavorativa che sempre più caratterizza la società odierna. Nella scuola come nel lavoro sembra imporsi l’idea di un soggetto isolato che non riesce più a padroneggiare l’affastellarsi caotico di microesperienze che solo in minima parte sono il frutto di decisioni veramente autonome. E’ ciò che correntemente definiamo con il termine flessibilità e che Berlinguer ha assunto come idea guida del suo progetto di riforma della scuola. A partire da questo punto di vista, che mira alla costruzione di un sistema fortemente agganciato alle dinamiche del mondo del lavoro, si capisce meglio la ratio che governa l’idea della didattica modulare. E’ lo stesso Berlinguer, nel documento di preparazione della riforma dei cicli, ad auspicare il superamento della “struttura piramidale, ove ogni ciclo ha funzioni propedeutiche rispetto ai successivi, per assumere una struttura modulare nella quale ogni segmento identifichi precise soglie da raggiungere e consolidi risultati spendibili in termini professionali”. Il termine modulo risulta pressoché incomprensibile senza il riferimento al sistema integrato, al progetto cioè di una radicale trasformazione dell’istituzione scolastica che assicuri la compresenza di vari gradi di istruzione, di vari indirizzi di studio, della formazione professionale e dell’apprendistato e l’interscambio tra momenti di formazione e momenti di lavoro. La struttura modulare assicura il transito da un settore all’altro del sistema attraverso l’accreditamento delle competenze certificate.

La certificazione, oltre ad essere una misura dell’efficacia del lavoro svolto, rappresenta il “titolo” di accesso a moduli successivi, di iscrizione in una scuola di diverso indirizzo, nella formazione professionale o nell’apprendistato. Le conoscenze e le competenze certificate devono corrispondere a un criterio di equivalenza generale che permetta la loro scambiabilità, cioè il loro riconoscimento in contesti diversi, sia scolastici che extrascolastici . Da questo punto di vista il sapere è misurato e vale come capitale, spendibile non solo nel percorso scolastico, ma anche in quello lavorativo (e viceversa, tanto la riforma dei cicli che la ridefinizione del concetto di educazione permanente riconoscono al lavoro la valenza certificabile di esperienza formativa). Non per niente si parla ora di unità formative capitalizzabili e, per una volta, il termine sembra sfuggire il consueto vuoto nominalistico del lessico pedagogico per indicare una prospettiva concreta. Il rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), Analisi delle politiche dell’istruzione 1998, esprime con chiarezza la posta in gioco nella ridefinizione dei sistemi scolastici: “Per l’impresa, l’individuo e l’economia, la formazione permanente rilancia l’investimento produttivo e riveste dunque altrettanta importanza, se non maggiore, del capitale fisico”. “L’investimento nell’edu-cazione presenta dei vantaggi economici e sociali poiché permette di arricchire lo stock di conoscenze e competenze, in altri termini il capitale umano”. Bisogna comprendere in questa ottica il sistema dei crediti, l’alternanza scuola lavoro, il nuovo significato economico che il territorio assume nella scuola dell’autonomia, l’ipotesi di un libretto-carta d’identità che accompagna l’intero percorso di vita certificando il cumulo di crediti scolastici e lavorativi acquisiti e il nuovo concetto di educazione permanente sempre più legato all’idea di interscambio flessibile tra formazione e lavoro.

Un documento importante per capire l’importanza dei moduli come nucleo organizzativo del sistema integrato sono gli Accordi sulla formazione sanciti dalla conferenza unificata Governo regioni province comuni e comunità montane il 2 marzo 2000 che si occupano delle modalità di espletamento formativo fino a 18 anni e dell’educazione permanente.

L’obbligo formativo può essere espletato nella scuola, nella formazione professionale e nell’ap-prendistato. Come previsto dall’art. 4 della Riforma dei cicli l’interscambio tra scuola e territorio può avvenire a partire dal primo biennio del ciclo secondario. Ogni segmento modulare della scuola e della formazione professionale costituisce un titolo di credito riconoscibile nel passaggio dal sistema dell’istruzione a quello della formazione e viceversa.

In particolare per quanto riguarda la regolamentazione dell’obbligo formativo assolto nell’ap-prendistato si prevede la frequenza obbligatoria di moduli di 120 ore annue finalizzati al raggiungimento delle conoscenze e competenze di base. Parte di questo esiguo monte ore può addirittura essere svolto direttamente sul luogo di lavoro.

Il centro nevralgico è costituito dai servizi per l’impiego che inseriscono i curricoli formativi in apposite banche dati che raccolgono anche l’offerta di lavoro del territorio al fine di orientare l’offerta formativa. Gli studenti a rischio di abbandono vengono chiamati, valutati per le competenze possedute e indirizzati verso le opportunità: percorsi di formazione e di apprendistato seguiti da un tutor presente sul territorio. Viceversa l’esperienza svolta nella formazione professionale o nell’apprendistato fa maturare crediti spendibili per l’eventuale rientro nel sistema dell’istruzione.

La seconda parte del documento, relativa all’educazione permanente, è la più interessante per capire le scelte culturali che governano l’intero disegno della riforma e permette di capire meglio la funzione svolta dalla didattica modulare. Il presupposto di fondo è il superamento della separazione tra cultura e lavoro: non più la successione tra un momento di studio che precede e un momento di lavoro che segue, ma l’interscambio continuo tra i due momenti. Il sistema integrato deve garantire nelle sue diverse articolazioni la “descrizione puntuale delle competenze certificate” per assicurane il riconoscimento nel mondo del lavoro. Il titolo di studio è tendenzialmente sostituito con il curriculum delle competenze, per definizione sempre aperto a possibili integrazioni e difficilmente utilizzabile come protezione dei livelli contrattuali.2

La funzione specifica del modulo è esattamente quella di organizzare i percorsi scolastici e formativi in vista di una “quantificazione in crediti delle abilità raggiunte” consentendo di “tesaurizzare nel percorso educativo la professionalità acquisita dall’adulto nel mondo del lavoro; di gestire con flessibilità l’apprendimento, modellandolo su precise esigenze formative e di validare il processo di qualificazione con test e prove intermedie”. Il modello proposto di educazione permanente è totalmente schiacciato sull’idea della riconversione professionale e lontanissimo da ogni istanza di emancipazione, cioè dalla garanzia di una possibilità di arricchimento culturale extraprofessionale.

Possiamo leggere in questa prospettiva l’am-bivalenza tra il modello di apprendimento addestrativo-comportamentistico e quello metacognitivo, riscontrata in riferimento all’utilizzo didattico della modularità. L’obiettivo di sviluppare innanzitutto la generica capacità di apprendere costituisce la premessa della formazione permanente intesa come addestramento flessibile all’acqui-sizione delle competenze di volta in volta richieste dal mercato. Nessun percorso specialistico deve più arrivare a definire una figura professionale a tutto tondo, perché un profilo di tal genere non è adeguato alla mutevolezza dei compiti professionali richiesti dal sistema produttivo. Le abilità cognitive varranno tanto di più quanto più saranno generiche e consentiranno l’adattamento all’offerta di lavoro contingente. Ogni certificazione di una abilità specifica è destinata a rapida obsolescenza, ma il modello modulare vuole questa obsolescenza dei suoi prodotti nella misura in cui stabilisce che non costituiscono un con-tinuum formativo, quanto piuttosto un insieme caotico di segmenti di sapere indipendenti gli uni dagli altri.3

La flessibilità di mansioni e la messa al lavoro delle abilità cognitive costituiscono le caratteristiche del cosiddetto lavoro postfordista. Con il postfordismo viene meno la separazione tra sapere e produzione che ancora permaneva nella fabbrica fordista in cui il momento della programmazione era separato, a monte del processo esecutivo, per lasciare posto a una tipologia di lavoro in cui vengono richieste competenze ed abilità cognitive tali da assicurare un grado più alto di interazione con il processo produttivo. Nei suoi studi sulle trasformazioni del lavoro Lorenzo Cillario4 ha rilevato in modo efficace che la specificità del cambiamento che investe il lavoro vivo non riguarda solo il contenuto dell’atto lavorativo, ma le modalità attraverso cui si realizza. Non tanto quindi i saperi specifici richiesti dalle macchine con cui si lavora, quanto i saperi informali e generici che informano i processi produttivi. Queste abilità cognitive generiche si sovrappongono all’attività ordinaria e hanno come oggetto la trasformazione di questa stessa attività. La dimensione ideativa che nel fordismo rimaneva circoscritta al settore della programmazione, si sovrappone ora a quella esecutiva: non viene richiesta la semplice ripetitività di un gesto quanto piuttosto la capacità di intervenire sulle procedure che lo governano al fine di modificarle. L’oggetto di trasformazione diviene così il lavoro stesso. In altri termini , si potrebbe dire che l’oggetto del lavoro non è il suo contenuto specifico, il fare quella cosa lì, quanto il suo rimando al possibile, l’aver potuto fare qualcos’altro. Questo rimando, insieme alla moltiplicazione delle mansioni assunte dal lavoratore, produce un effetto di autoregolazione, assicura la versatilità del lavoro iscrivendo nella struttura psichica del lavoratore un meccanismo competitivo finalizzato ad accrescere il profitto altrui. E’ evidente che il motto “apprendere ad apprendere” costituisce il correlato nell’ambito della formazione del metalavoro, del lavoro che opera sulle procedure del lavoro stesso. La struttura metacognitiva assicura la possibilità di cumulare il sapere in modo simile a quello in cui si accumula denaro come capitale.

Senza dimenticare la persistenza di modelli organizzativi fondati sulla divisione dei ruoli direttivi da quelli meramente esecutivi a carattere ripetitivo, la prefigurazione del modello di lavoro cognitivo autoregolato non sembra costituire un reale percorso di ricomposizione della soggettività.

Il paragrafo dedicato aspetti pedagogici degli Accordi sulla formazione sottolinea enfaticamente le trasformazioni che valorizzano la componente attiva del lavoro per giustificare l’isti-tuzione di un sistema integrato che introduca il concetto di lavoro nel curricolo di studio da un lato e solleciti l’affiancamento di momenti di formazione al tradizionale percorso lavorativo dall’altro: “Mentre alla scuola e alle diverse istituzioni formative si è chiesto di essere più attente al tema del lavoro e al relativo rapporto col mondo della produzione, al lavoro, oggi, si deve chiede di essere aperto alla riflessione sulle proprie operazioni e, quindi, di considerare questo nuovo aspetto come elemento essenziale del suo sviluppo qualitativo”. Il richiamo alla Costituzione (“l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”) opera a questo punto la saldatura tra formazione e lavoro in termini di diritto di cittadinanza. Il rovesciamento ideologico è così compiuto, la subordinazione del sistema dell’istruzione alle esigenze del mercato diventa processo di emancipazione del lavoro: “il soggetto acquista il diritto al lavoro come diritto alla sua umanizzazione attraverso la riflessività. Occorre transitare dalla concezione del lavoro come strumento a quella del lavoro come oggetto significativo per la propria umanizzazione. La prima cittadinanza politica dell’uomo risponde a questa esigenza: contribuire allo sviluppo sociale mediante l’umaniz-zazione del lavoro”. Questo tripudio di etica del lavoro scambia volutamente il processo di sussunzione integrale delle capacità umane nel processo lavorativo, il livello massimo di intensificazione e sfruttamento del lavoro (cioè il livello massimo di profitto che esso garantisce) con un processo di liberazione del lavoro. Anche a prescindere dalla considerazione che le linee guida della riforma sembrano avere come fine principale la produzione di soggetti flessibili privi di qualificazione, da consumere in tempi brevi e costringere alla riconversione continua,5 non occorre essere particolarmente scaltri per intuire che la possibilità di mettere le proprie capacità relazionali, cognitive e creative al sevizio dell’impresa non modifica in alcun modo il rapporto di sfruttamento. Essa rimane governata da interessi e finalità estranei al lavoratore e alla collettività. L’elemento nuovo è la possibilità di sostituire il comando disciplinare con un meccanismo di autocontrollo-autosfruttamento alimentato dall’illu-sione di ricomporre la divisione del lavoro. In termini di qualità della vita questa esasperazione della competizione con se stessi e l’identi-ficazione integrale con un interesse estraneo non sembrano delineare nessun orizzonte umanizzato verso cui canalizzare energie e desideri.

Il compito della scuola è divenuto direttamente quello di produrre soggettività flessibili atte al lavoro. Non c’è più uno spazio per una definizione autonoma della soggettività, dei suoi bisogni e dei suoi desideri, che vengono interamente sussunti al mondo economico.

Il riconoscimento della centralità del capitale umano in quanto capitale intellettuale sollecita un interesse crescente ad investire nei sistemi scolastici dei vari paesi cercando di definire il quadro di competenze chiave che il sistema educativo deve trasmettere affinché gli studenti accrescano il loro potenziale produttivo. Da qui deriva l’ossessione di programmare e produrre competenze cognitive misurabili e documentabili da scrivere direttamente nel bilancio delle imprese. D’altra parte però si afferma l’esigenza di inglobare nel processo produttivo l’intera esperienza umana, il riconoscimento cioè dell’importanza cruciale che assumono le attitudini comunicativo-relazionali, le capacità organizzative e creative quando vengono poste al servizio delle imprese. Sono proprio quelle qualità dell’esperienza educativa che sfuggono alla valutazione certificativa e che il modello della didattica modulare tende a porre ai margini dell’organizzazione scolastica. E’ evidente da questo punto di vista la contradditorietà di un modello formativo che poggia su un’idea tutto sommato molto rigida di flessibilità.

Si attua così una mistificazione del carattere sempre più sociale e cooperativo della produzione per riprodurre una scissione in cui le capacità produttive vengono ridotte a capacità individuali; nel momento in cui la comunicazione assume un ruolo cruciale nella società essa viene negata e costretta alla disciplina dell’isolamento e della frammentazione.

Questa deriva è iscritta nella dimensione privatistica che la scuola sta assumendo sottomettendo gli investimenti nell’istruzione, siano essi statali o privati, al criterio del profitto.

E’ essenziale denunciare con forza questa prepotenza liberistica che nega alla sfera dell’i-struzione il suo carattere pubblico e indipendente recuperando la centralità degli studenti come soggettività critica, come appartenenza a una collettività plurale, come eccedenza e irriducibilità rispetto alla loro funzione di capitale umano.

Note:

1 Cfr. G. De Sélys, La scuola, grande affare del XXI secolo, “Le monde diplomatique”, giugno 1998.

2 Vale la pena di ricordare che le strategie dell’OCSE per l’impiego rivelano in modo candido il quadro liberista nel quale si inscrivono le trasformazioni dei sistemi dell’istruzione sollecitando la sinergia di diversi provvedimenti:

“Migliorare le qualificazioni e le competenze della manodopera modificando profondamente il sistema di insegnamento e di formazione”.

“Aumentare la flessibilità dei costi salariali e di manodopera sopprimendo i vincoli che impediscono ai salari di riflettere le condizioni locali e il livello di qualificazione di ciascuno, in particolare dei lavoratori giovani”.

“Rivedere le disposizioni relative alla tutela del lavoro che frenano la crescita dell’occupazione nel settore privato”.

Prospettive economiche dell’OCSE. Giugno ‘99.

3 “Il percorso di qualificazione della maggior parte delle persone non è, in sostanza, il risultato di un ordine sequenziale di tragitti formativi programmati, organizzati, monitorati e valutati. E’ viceversa un percorso accidentato in cui esperienze diverse di istruzione formale e di pratica lavorativa si alternano tra loro, in cui risorse cognitive di natura molto varia sono progressivamente legate ai fini di una qualificazione” Accordi sulla formazione, 2 marzo 2000, repertorio atti n.223, §2.

4 Il filo delle riflessioni di Cillario è volto a cogliere il nesso tra i meccanismi di accumulazione di conoscenza e quelli di accumulazione del capitale. Il sapere è analizzato come valore cognitivo nella misura in cui si riproduce come capitale e in funzione del capitale. Cfr. Il capitalismo cognitivo. Sapere, sfruttamento e accumulazione dopo la rivoluzione informatica in AAVV, Trasformazione e persistenza. Saggi sulla storicità del capitalismo, Milano, Angeli, 1990.

L’ “uomo di vetro” nel lavoro organizzato. Profili postmoderni dell’alienazione del senso e della soggettività, Bologna, Mongolfiera, 1990.

L’economia degli spettri. Forme del capitalismo contemporaneo, Roma, Manifestolibri, 1996.

Capitalismo e conoscenza. L’astrazione del lavoro nell’era telematica a cura di L. Cillario e R. Finelli, Roma, Manifestolibri, 1998.

5 In realtà i proclami sulle finalità della riforma scolastica, per quanto mistificanti, non sembrano neppure del tutto coerenti con il suo impianto organizzativo che sembra proporre una versione brutale della flessibilità attenta a trovare il modo di ampliare la disponibilità di forza lavoro senza più vincoli contrattuali. Il progetto della formazione permanente sembra infatti talvolta prefigurare una gigantesca struttura di lavoro interinale in cui il tempo di vita diviene tempo di attesa del lavoro (non retribuito), attesa che si deve riempire attraverso la formazione (non retribuita se non addirittura pagata direttamente dal lavoratore) in attesa di un’assunzione a tempo determinato.


Quaderno CESP n. 1. La scuola: prove di resistenza
Atti del seminario di auto-aggiornamento tenuto il 16 maggio 2002 presso l’ITIS Belluzzi di Bologna.
A cura di Gruppo Scuola del Bologna Social Forum e CESP – Centro Studi per la Scuola Pubblica, Bologna

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