Identità plurale dello straniero

di Adel Jabbar*

[*sociologo immigrazione e relazioni interculturali, Università Ca’ Foscari di Venezia, Res – Ricerca e Studio, 0461-820627; studiores@tin.it]

Tu lascerai ogne cosa diletta

Più caramente; e questo è quello strale

che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale

Lo pane altrui, e come è duro calle

Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

(Dante Alighieri, La Divina CommediaParadiso, XVII)

La perdita di luoghi, di volti, di abitudini. E l’inizio di un percorso nuovo, di ricognizione ed esplorazione, per ricollocare un intero vissuto dentro l’ignoto, dove lo sguardo e la mente spaziano alla ricerca di simboli, suoni, profumi, sapori, gesti, immagini, che siano in qualche modo riconoscibili.

Ma cosa del mio vissuto posso riporre nel nuovo, e dove? Il rapporto con la nuova realtà spesso inizia con questi interrogativi, e con gli imbarazzi, le esitazioni, le scappatoie, che nascono dalla ricerca necessaria e continua di contatti e di conoscenza.

Un episodio, reale, può raccontare e spiegare questo vissuto, forse più di qualsiasi considerazione intellettuale.

Dopo essere arrivato in Italia, senza nessuna conoscenza della lingua, riesco con non pochi intoppi a iscrivermi al corso universitario di italiano per stranieri. Là mi informo, in un rudimentale inglese, sul vitto, dopodiché mi consegnano un foglio con l’indirizzo di una mensa. Con questo foglio in mano mi incammino, fermando i passanti e chiedendo indicazioni. Ad una fermata dell’autobus, un giovane, visto il foglio che ho in mano, si porta una mano alla fronte esibendosi in una parola di cui ben presto avrei compreso il significato, ma che in quel momento mi suona del tutto oscura: “c…!”, a sottolineare la sua difficoltà nel rispondermi. Lì per lì, mi appello al contesto in cui mi trovo per cercare di capire cosa mi sta dicendo: una linea di percorso, un numero dell’autobus, un altro mezzo di trasporto? Per fortuna dopo, a gesti, mi fa capire che non sa dove indirizzarmi. In qualche modo arrivo alla mensa, per trovarmi di fronte subito a nuovi dettagli da affrontare. Mi trovo nella situazione definita come dilemma dell’ottico: guardi l’insieme e vedi una cosa, ma per poterla capire devi cogliere anche i particolari, che ad una prima visione ti sfuggono. Il primo dettaglio nel caso in questione è la fila, una lunga coda che esce sulla strada, una condizione che non ho mai sperimentato se associata al cibo. Per capire, mi distacco, attraverso la strada e guardo la fila da lontano, per cogliere quei particolari che mi indichino chi siano le persone che compongono questa fila. Deduco (dall’età, dall’abbigliamento) che sì, potrebbero essere studenti e quindi mi rimetto in fila. Anche l’edificio mensa mi sconcerta: si tratta di una sorta di capannone che nei cassetti della mia mente trovo associato più a magazzini, a depositi che non a luoghi in cui si mangia. Decido comunque di sospendere temporaneamente la ricerca di significati e aspetto il mio turno. Finalmente, una volta entrato nel capannone, fra odore di fritto e di detersivi che già mi danno conferme, vedo un lungo bancone e dietro persone che distribuiscono il cibo. Ma adesso cosa mangio? Quali nomi hanno quelle pietanza che vedo nei piatti che mi precedono? Lo scoraggiamento quasi mi suggerisce di lasciar perdere, ma, oltre a ad aver superato ormai tutto un percorso ostico, so che quello è solo l’inizio e decido di andare avanti, concentrandomi sui gesti e le parole di chi mi precede nella fila, badando soprattutto a ciò che mi appare foneticamente più facile da riprodurre. Mi accorgo che una frase, in particolare, viene riferita frequentemente, accompagnata da un gesto indicativo della mano e allora penso che se in tanti chiedono quel cibo, male non farà. Il cibo in questione, o meglio la frase è: “lo stesso”, che alcuni prima di me hanno ripetuto per chiedere la pietanza richiesta da un collega (ma questo l’ho capito soltanto più avanti). Allora, arrivato finalmente il mio turno, faccio anch’io la mia richiesta: “Lo stesso”. Per i due mesi seguenti, pur avendo ormai capito che mangiavo le stesse cose di chi mi precedeva, per non sbagliare e pregando che il mio compagno scegliesse bene, ho continuato a chiedere “lo stesso”. Piccolo particolare: “lo stesso”, sul dizionario, ovviamente, non esiste, e quindi la ricostruzione grammaticale di questo significato, così poco immediato, mi ha richiesto molto tempo.

Lo straniero, che si trova a dover rispondere a bisogni primari comuni, non possedendo gli strumenti immediati per farvi fronte è spesso costretto a ridurre la complessità della situazione in cui si trova, adeguandola secondo ordini di priorità. Non è importante, tanto per riferirsi all’aneddoto di cui sopra, “cosa” mangia, o almeno non lo è subito: ciò che conta è prima di tutto poter mangiare, quindi va bene “lo stesso”. Anche in altre sfere della vita lo straniero finisce per trovare degli interstizi, dei margini di significato, cui riferirsi per interpretare la realtà e per poterla gestire. Il continuo collocarsi in situazioni “al margine”, dà luogo ad una visione se vogliamo distaccata del contesto, estranea alle relazioni più interne, ai vincoli più stretti, e dunque genera una condizione di solitudine. Questo non significa che con il passare del tempo la realtà non possa venire compresa e interpretata nella sua complessità; certo però questa sorta di “training”, di imprinting iniziale, di solitudine acquisita, segna il vissuto dello straniero, e lo segna nei termini di un dilemma, fra un’estraneità “appresa” e l’essere, il vivere, dentro. Una condizione che può essere di profondo disagio, ma anche di potenziale libertà, se non altro intima e morale, proprio perché svincolata da schemi precostituiti e fissi.

Dopo aver sinteticamente inquadrato gli aspetti e le dinamiche che investono l’esperienza dello straniero, può essere utile e interessante un approfondimento sullo straniero musulmano, quale sono, anche come bisogno di contribuire alla conoscenza della sua realtà di origine e a superare una visione spesso semplificata e stereotipata.

La complessità dell’Islam

I musulmani spesso vengono visti e presentati dai mezzi di informazione tramite un filtro. Una società complessa per condizioni storiche, geografiche, culturali, economiche, statuali, viene ridotta ad una visione dottrinale nella quale il musulmano viene interpretato soprattutto attraverso letture che risalgono ad un periodo ormai molto lontano, il periodo medioevale. Quindi sui giornali troviamo spesso i “massimi esperti”, molto gettonati, che parlano dell’Islam per quello che è stato scritto soprattutto nei libri antichi sacri e non. Invece c’è quasi una totale assenza di informazioni su che cosa sia oggi una società musulmana e che cosa significhi oggi essere musulmano.

Quella che oggi è la realtà musulmana, geograficamente molto estesa, dove vivono popolazioni appartenenti a continenti diversi, dal ‘500 in poi è stata gradualmente inglobata e inclusa, in condizioni subalterne, dentro quel sistema che oggi chiamiamo “Occidente”. Non a caso, quasi tutti i territori dell’Islam sono stati colonizzati.

Questo è un dato importante, perché quando si parla di Islam, lo si presenta sempre come religione e non come società dove sono passate potenze coloniali francesi, inglesi, olandesi, portoghesi, spagnole, italiane, russe, cinesi, ognuna delle quali ha “segnato” la popolazione musulmana; infatti oggi in nessun paese musulmano si usa una lingua soltanto, ma spesso due, tre lingue.

Il mondo islamico quindi oggi è un mondo fortemente periferico, ma dentro il sistema occidente, per struttura politico-istituzionale, per modello economico e per sistemi educativi, seppure con tante contraddizioni.

Tutto questo nei mass media, nel mondo dell’informazione in generale, ma anche negli spazi di approfondimento, viene a malapena sfiorato, in modo marginale, quando invece è un aspetto determinante. Esiste un’astratta concezione del musulmano come homo islamicus: un’essenza virtuale che non si capisce dove abbia inizio e dove sia diretto. Quando si parla dei musulmani gli strumenti delle scienze sociali spesso declinano, ed è molto raro incontrare analisi che si avvalgono di indicatori socioeconomici, demografici, politici. Si trascurano quindi sia gli aspetti storico-sociali, sia le contiguità sviluppatesi nelle varie sfere del sapere e dell’agire umano a seguito degli intrecci continui fra mondo musulmano e altri sistemi o culture.

Come interpretare dunque il mondo islamico nella sua complessità? E’ importante considerare i seguenti fattori:

1) Contesto socio-economico. La realtà concreta della società islamica, come di qualsiasi altra società, va vista come sintesi dell’operato di attori sociali che interagiscono secondo determinate condizioni storico-materiali; dunque l’agire sociale non può essere letto unicamente alla luce di una dimensione spirituale-religiosa, come spesso si fa in maniera superficiale e riduttiva. Le popolazioni dell’area islamica non rivendicano una specificità religiosa più di quanto non faccia qualsiasi altra popolazione, né ambiscono a contrapporsi a società di diversa religione. Semplicemente, uomini e donne arabi e musulmani aspirano, come chiunque altro, a migliorare le proprie condizioni di vita. Le società musulmane, come altre società, nutrono al loro interno istanze tese a realizzare la giustizia sociale, un pluralismo politico, un modello di sviluppo locale/mondiale più corrispondente alle esigenze di larghe fasce di popolazione, ad accorciare il divario fra classi sociali. Poiché, non dimentichiamolo, buona parte di questa area islamica fa parte del cosiddetto Sud del mondo, nel quale paesi come la Colombia cattolica, il Bangladesh musulmano, il Myanmar (ex Birmania) e lo Sri Lanka buddisti, sono accomunati da situazioni concretamente simili: situazioni di povertà, di sperequazioni economiche, di instabilità e di violenza politica, che vanno ricondotte non certo alla religione d’appartenenza, ma a ben precise condizioni materiali. D’altra parte, non è ben chiaro il motivo per cui la violenza politica presente in alcuni paesi musulmani venga considerata una componente insita nella religione islamica. Tale equazione non viene postulata per altre società attraversate a loro volta da attività terroristiche, come ad esempio lo stato italiano oppure i Paesi Baschi o l’Irlanda. Anche in quest’ultimo caso, sebbene si faccia riferimento a tensioni di natura religiosa, queste vengono comunque e giustamente inquadrate nel contesto sociale, storico, politico. Se la violenza politica fosse una prerogativa dell’Islam, non dovrebbe allora tale genere di conflitto risultare estraneo a realtà non islamiche.

2) Eterogeneità. Quando si considera l’area islamica, si dovrebbero tenere sempre ben presenti le diverse connotazioni culturali, le caratteristiche territoriali, nonché le varie entità geografiche e statuali, in gran parte delineatesi, del resto, a seguito del colonialismo europeo, che in molte aree non ha certo favorito una crescita democratica, bensì ha piuttosto rappresentato un ostacolo al pluralismo.

3) Forme di governo. Fra gli oltre cinquanta stati che fanno parte della Conferenza Islamica mondiale, soltanto sei dichiarano la loro costituzione fondata sulla sharia (corpus giuridico islamico): Arabia Saudita, Afghanistan, Iran, Pakistan, Mauritania, Sudan. Anche fra questi cinque paesi, tuttavia, si riscontrano sostanziali differenze nell’applicazione della Sharia. In ogni caso, in molti paesi arabi e musulmani il governo è in mano ad élite secolarizzate, e non costituisce quindi un’espressione della religione.

4) Modelli di sviluppo. Come altre realtà del sud del mondo, anche questi paesi negli anni cinquanta furono attraversati da istanze anticoloniali, abbracciando non raramente idee socialiste e lo stesso comunismo. Attualmente, nell’era della globalizzazione, in buona parte di queste aree si assiste all’introduzione di processi di privatizzazione e di modelli di mercato neoliberalista.

5) Prassi quotidiana. Infine, la stessa prassi sociale e la vita quotidiana non si ispirano soltanto alla religione, bensì anche alla tradizione, alle consuetudini, nonché a mode intrecciate con stili di vita e di consumo importati dall’esterno.

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