La difficile pratica dei diritti per i migranti
di Mario Marcuz
La recente legge Bossi – Fini imponendo nuove regole in tema di immigrazione, dietro un preteso obiettivo di controllo del territorio dello Stato e di repressione dell’immigrazione clandestina, ha inciso con modalità incostituzionali sui diritti fondamentali della persona (libertà personale, diritto di difesa, diritto d’asilo, diritti familiari e del lavoro) che spettano anche allo straniero, venendo a corollare un clima politico culturale che da anni assume a parametro negativo chi è “diverso o altro” dall’ordinario cittadino.
Né possono fungere da adeguata contropartita sanatorie che lasciano uno strascico di ingiustizie e disparità di trattamenti.
Anche il compito di chi esercita con impegno la professione forense, nella società “globalizzata” appare assumere un ruolo multidimensionale a fronte dell’arrivo di cittadini stranieri e appartenenti a paesi extracomunitari.
Oltre quella dimensione strettamente processuale che involge il rapporto difensore – assistito in relazione a un processo, esiste un ulteriore peculiare dimensione che riguarda il rapporto tra difensore e coloro i quali si trovano a far valere i propri diritti di lavoratori o subiscono una restrizione della libertà personale attraverso la detenzione carceraria.
Appare, a chi scrive, evidente la delicatezza del ruolo di chi assume la difesa nel processo civile o penale qualora si instauri un rapporto con persone o collettività appartenenti a un contesto linguistico e culturale diverso e lontano, non solo geograficamente.
Se nell’aula processuale una funzione mediatrice viene svolta dall’interprete chiamato di volta in volta a fungere da tecnico ausiliatore degli attori del processo (accusa, difesa, giudicante), tale ausilio trova maggiore difficoltà di applicazione nel rapporto tra difensore e assistito.
La difficoltà non è solo quelle di tradurre letteralmente le parole dette nella lingua diversa dall’italiano, ma di far pervenire la portata semantica di concetti a chi proviene da culture che di quei concetti non dispongono nemmeno di un termine, di una locuzione che li definisce.
A volte non è nemmeno sufficiente infatti la presenza di un traduttore capace che, pur traducendo fedelmente la lingua italiana, non ha purtroppo spesso quelle conoscenze giuridiche di base per potere, anche con immagini o metafore, far comprendere allo straniero ciò che sta accadendo alla sua persona.
E’ stata notizia diffusa a livello nazionale la vicenda relativa ai quattro ragazzi di nazionalità marocchina residenti nel padovano accusati alcuni mesi fa di aver in progetto un attentato alla Basilica di S. Petronio a Bologna.
Incomprensioni linguistiche e culturali rischiavano infatti di costringere a un lungo periodo di detenzione cautelare persone che si trovavano in Italia unicamente per lavorare e che non sapevano nemmeno ove si trovasse la moschea più vicina a casa.
Molte volte è capitato che, di fronte alla precisa domanda alla persona straniera detenuta se aveva capito quanto stavo spiegando, questa facesse cenno affermativo, salvo due minuti dopo accorgersi che in effetti si era ancora in alto mare quanto a detta comprensione.
Trovo che a fronte di una necessaria ed auspicabile sensibilità degli operatori del diritto di fronte a tali problematiche debba peraltro corrispondere una adeguata presa di coscienza da parte di chi dovrebbe organizzare le strutture e formare le persone operanti in questo ambito.
La stessa dimensione di istruzione che i lavoratori migranti hanno a disposizione nel paese che li accoglie risulta insufficiente. E penso in particolare poi alla alfabetizzazione dei detenuti nelle carceri, vista la scarsità dei mezzi impiegati.
La scolarizzazione avrebbe innanzitutto lo scopo mirare a formare una coscienza civile negli individui, uno strumento stabile e generalizzato in grado di sollecitare nel lavoratore una presa di coscienza della realtà socio economica nella quale è maturata la sua esperienza personale e collettiva: anche attraverso questo processo il lavoratori migranti potranno sfuggire alla ghigliottina del sempre più diffuso “lavoro nero”
Trovo singolare che la società italiana sia stata colta impreparata a questi eventi che in altri paesi assumono una dimensione temporale pluridecennale.
L’impatto tra la società italiana e il notevole afflusso di immigrati dai “cosiddetti terzo e quarto mondo” ha prodotto più disorientamento che ricchezza, più emergenzialità che processi di integrazione culturale.
Analisi di studiosi, soprattutto del mondo anglosassone, sulle problematiche accennate risalgono ormai ad alcuni decenni or sono, ma di queste tuttavia a livello istituzionale non se ne è tenuto affatto conto.
E’ evidente che la velocità dei processi economico sociali è superiore a quella di adattamento delle istituzioni chiamate a gestirli e pure a quella degli operatori che ne sono coinvolti, ma ritengo che tale approccio al rallentatore nasconda delle responsabilità colpevoli frutto di scarsa o nulla sensibilità a fenomeni di massa quale è quello dell’immigrazione.
Basti un esempio pratico.
Uno dei fattori che spesso determinano la reclusione carceraria è quello tipico della difficoltà dello straniero a provare la disponibilità di un lavoro, a fronte del già accennato fenomeno del mercato sommerso, fiorente non soltanto nelle grandi metropoli italiane, a danno dei cittadini stranieri, fascia di debole forze contrattuale.
La mancanza della prova suddetta può essere condizione ostativa alla concessione di misure alternative alla custodia cautelare carceraria o, in sede di passaggio in giudicato della sentenza di condanna, alla detenzione carceraria.
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