La relazione didattica, due paradigmi contrapposti

di Gianluca Gabrielli

[…] Voi grandi maestri

Vogliate ascoltare mentre parlate.B. Brecht

La relazione tra insegnanti Insegno nella scuola elementare. Sei anni fa ho frequentato il corso di formazione per insegnanti in anno di prova, necessario per accedere al “ruolo”. Da questo corso credo di aver acquisito insegnamenti diversi rispetto a quelli che avevano in mente gli organizzatori. Posso dire di aver conservato l’impressione di grande fatica con cui le istituzioni preposte lo mettevano in piedi, ricordo una relazione interessante (erano in tutto una decina) sugli stili di apprendimento; ma soprattutto ho ancora fresco e vitale un bellissimo ricordo del caotico e produttivo scambio di esperienze e impressioni con gli altri allievi-insegnanti che insieme a me frequentavano le lezioni. Eravamo in 50, tenuti tutti insieme con l’evidente fine del risparmio economico. La scarsa qualità delle lezioni e probabilmente anche la stanchezza faceva si che molti di noi utilizzassero gran parte del tempo – a bassa voce – per scambiare le esperienze accumulate nella breve o lunga esperienza di precariato, le impressioni maturate nelle scuole, le opinioni sulle diverse modalità di affrontare la didattica, gli scambi di letture e passioni personali, così profondamente legate agli stili di insegnamento. L’apice di questa situazione paradossale – in cui l’obiettivo programmato si annullò completamente mentre la crescita e la comunicazione “tra pari” fu enorme – lo registrai nella lezione su informatica e didattica: organizzata in una vecchia e rimbombante palestra della scuola Casaralta con la bellezza di un (1) computer portatile, si trasformò informalmente in un lungo scambio sulle potenzialità della scrittura creativa, sull’opportunità di intervenire o meno con correzioni sintattiche ad interrompere il flusso creativo di bambine e bambini che scrivevano, sulle esperienze personali di scrittura che ognuno di noi aveva sempre dissimulato o nascosto.

Quest’anno gli insegnanti neo-assunti frequentano un corso molto diverso. Mi raccontano che le lezioni sono trasformate in moduli da seguire attraverso computer, collegandosi in rete e producendo risposte a quesiti valutati all’altro capo della rete o piccole relazioni che a loro volta vengono inoltrate ai coordinatori dei corsi. Senza entrare nel dettaglio delle caratteristiche (ad esempio di rigidità) che assumono questi moduli informatici, è però subito evidente che si perde in maniera secca ciò che personalmente consideravo ancora l’aspetto gratificante e utile della vecchia organizzazione: lo scambio informale, la relazione – non rigidamente vincolata – tra insegnanti. Una delle finalità di questo cambiamento di modello rimane meramente economica: da un coordinatore su 50 allievi a un programmatore su 500 o 5.000. Un’altra ragione sta evidentemente nella maggiore controllabilità del processo (anche se è altrettanto chiaro che si tratta di controllo solo apparente). L’effetto più significativo è comunque di isolare le persone attraverso l’e-learning: sole di fronte allo schermo. Credo che questo episodio, come altri che cito di seguito, sia significativo di un mutamento che sta facendosi spazio nelle modalità organizzative della scuola in cui viviamo. È palese che la relazione tra insegnanti non viene individuata come ricchezza da valorizzare nella crescita professionale; a questa concezione viene sostituita l’idea che l’accumulo individuale delle conoscenze possa essere la via maestra per il miglioramento della qualità.

Insegnando nella scuola elementare ho diritto a due ore settimanali di scambio e confronto con i colleghi. Il confronto avviene anche nel vivo della didattica, nelle attività condotte in compresenza. Il fatto che nelle scuole di grado maggiore questi momenti non esistano o siano molto limitati è più volte emerso nelle discussioni del Gruppo scuola del BSF come elemento significativo della diversa identità degli insegnanti dei due ordini di scuola. Anche questi elementi di scambio e cooperazione tra insegnanti sono importanti. Recentemente si è svolta una polemica in Belgio sull’interpretazione di alcuni risultati scaturiti da una ricerca sul successo scolastico in relazione al numero di insegnanti. Tra i dati che più mi colpivano Nico Hirtt metteva in evidenza che la qualità della didattica migliorava non semplicemente con l’aumento delle figure di adulti nella classe, ma specificamente quando queste figure avevano pari dignità; cioè il successo scolastico non aumentava quando una seconda figura di adulto ricopriva il ruolo subordinato di “aiutante”.1 Questo della “diversa dignità tra colleghi” è un rischio sempre presente nelle azioni condotte in coppia; specificamente, nella mia limitata esperienza relativa alla scuola elementare, emerge in situazioni di contitolarità di due insegnanti con personalità di impatto diverso che in breve tempo tendono ad assumere ruolo di leader e di gregario; o ancora tale situazione può svilupparsi nella compresenza tra insegnanti di classe e insegnanti di sostegno alla classe – che spesso per una serie di ragioni si ritrovano a dover fronteggiare le difficoltà dell’integrazione anche rispetto al loro ruolo nella classe.Finché questo processo rimane interno alla relazione docente si può in parte contrastare. Il discorso cambia completamente quando è una spinta istituzionale, “riformatrice” a riorganizzare il corpo insegnante su gerarchie, sulla concorrenza, sui riconoscimenti economici in relazione ai diversi ruoli di potere (e quindi di decisione): in questo caso ognuno rischia di diventare l’aiutante o l’esecutore di qualcun altro. Questa spinta, con esiti alterni, è praticata almeno da 5 anni nella scuola italiana e, nonostante sia stata respinta nelle sue accezioni più potenzialmente distruttive, come il cosiddetto “concorsaccio”, rimane operante con le funzioni obiettivo e il salario accessorio e minaccia continuamente di espandersi nelle direzioni più varie.2

La relazione tra studenti

Sono partito parlando della relazione cooperativa tra insegnanti. Degli aspetti di relazione che fondano il “gruppo classe” accenno solamente, rimandando il lettore alla relazione di Alvin Palmi. A livello istituzionale agiscono comunque spinte nella stessa direzione: l’Autonomia scolastica dà il via libera normativo alla scomposizione del gruppo classe funzionale alla riorganizzazione didattica modulare, la Legge Finanziaria 2002 taglia posti di lavoro anche percorrendo la strada, funzionale al risparmio, delle scomposizioni e degli accorpamenti di classi. In entrambi i casi la crescita di relazioni tra pari, che costituisce una fenomenale leva di integrazione e di motivazione scolastica, viene ferita in modo grave. Si riaffacciano invece le tentazioni dei gruppi di livello…

La relazione didattica La terza dimensione3 da cui affrontare il tema della relazione è certamente quella più importante: la dimensione didattica. Da questo punto di vista, schematizzando, abbiamo individuato due poli attorno ai quali è possibile far crescere e sviluppare la pratica didattica: per comodità espositiva abbiamo chiamato cognitivista e costruttivista questi due poli .L’approccio cognitivista pone l’accento sul termine istruzione. La didattica cognitivista tenta di sfrondare le soggettività e le complessità che sono in gioco in una relazione educativa in nome della governabilità del processo. Ogni soggetto della classe – sia allieva-allievo che insegnante – è separato dagli altri e dall’ambiente di apprendimento. Ogni apprendimento è isolato. Ogni passo di questo processo è segmentato e misurato… Si tratta di una scelta dettata dall’illusione di onnipotenza che accompagna questa didattica. È l’illusione di poter governare il processo di insegnamento-apprendimento attraverso il principio – che guida anche i programmatori di informatica – che sia possibile programmare tutto il percorso didattico salvo retroagire di fronte alle “resistenze” riprogrammando nuove varianti. La valutazione consona a questo approccio si autonomina “oggettiva” e tende a scomporre gli apprendimenti in unità minime. Nella pratica quando è applicata correttamente attiva un feed-back che può retroagire fino alle convinzioni dell’insegnante, ma ha connaturato in sé anche il rischio della degenerazione in sanzione e selezione in nome del rispetto della presunta oggettività.La governabilità di tale approccio è ovviamente un’illusione. Forse è proprio per questo che parallelamente cresce il disagio degli insegnanti nella gestione delle classi (che ovviamente non ha solo questa origine) e proliferano i corsi di aggiornamento per insegnanti sulla tecniche di gestione di gruppo, sulla gestione del conflitto, sulle dinamiche psico-sociali. La contraddizione tra i due approcci – uno teso alla trasmissione e alla valutazione “oggettiva”, l’altro teso a praticare “tecniche psicologiche” di gestione di gruppo, è palese: sono modalità non omogenee, il risultato rimane spesso una giustapposizione più che un’interazione… Le tecniche psico-sociali in questo caso sono divulgate strumentalmente per gestire conflitti generati dall’approccio cognitivista e dal disagio ambientale che cresce nella scuola sorda alle esigenze di relazione.Quella della didattica cognitivista è una scelta che ben si accompagna ad esigenze di risparmio: cosa è più scambiabile e riproducibile, adattabile e al limite sostituibile da un software di un processo segmentato dalle varianti controllabili e dalle valutazioni “oggettive”, che permette certificazioni tali che ogni modulo produca una formazione confrontabile ad ogni altra a prescindere dai contenuti? Questa didattica si sposa perfettamente alla prospettiva di sostituire nel tempo vaste quote di istruzione gestita da insegnanti con investimenti in tecnologie informatiche affidati a multinazionali di quel mondo dell’e-learning di cui già parlava De Sélys alcuni anni fa.4 Inoltre, più a breve termine, una didattica con queste caratteristiche permette una gestione più flessibile delle materie e degli insegnanti e quindi non pone resistenze ai progetti di razionalizazione-risparmio-riorganizzazione.Nel mio circolo didattico ho visto realizzarsi un’esemplificazione estrema di questo approccio nella predisposizione dell’acquisto di molte copie di un programma informatico di intervento sulle capacità di bambini dislessici. Non credo che l’uso dell’ausilio informatico sia di per sé negativo, ma nel nostro caso si trattava di predisporre gruppi di bambini-bambine dislessici che, ognuno di fronte al suo bravo schermo, potessero digitare su dettatura automatica in parallelo e con la supervisione dell’insegnante. Una scorciatoia di ciò che, in modo molto più artigianale e umano, si può organizzare tra compagni di classe, in maniera meno ossessiva e stereotipata, alternando queste esercitazioni specifiche ad altre attività dove la dipendenza del bambino dislessico fosse almeno diminuita nei confronti dei compagni reali…Di fronte a questa ambizione di onnipotenza cognitivista occorre contrapporre la modestia dell’approccio costruttivista che lascia spazio alla creatività nel processo didattico e alla soggettività delle persone che partecipano alla relazione.

La creatività significa che l’insegnante che entra in una classe ha un’idea di ciò che può prodursi, ma che sa che inevitabilmente il risultato sarà diverso dall’idea iniziale. L’insegnante sa da principio che la sua flessibilità (questa si positiva) sarà condizione necessaria per cogliere e rendere operative le opportunità e le chances che verranno dagli altri soggetti coinvolti nella relazione. Sa che molte idee da cui partiva diverranno evidentemente irrealizzabili, e saprà riconoscerlo. Sa che i tempi previsti muteranno continuamente in corso d’opera. Sa che il risultato finale (sapere e relazioni) sarà costruito al pari dalle sue proposte e dalle risposte e controproposte delle persone che gli stanno di fronte e che quindi il tempo dedicato all’ascolto non sarà mai tempo perduto.Del pari, l’insegnante sa che la classe è formata di ragazze e ragazzi, non occulta l’identità di genere propria e delle persone che ha di fronte.L’approccio costruttivista parte dal presupposto che ogni soggetto che si mette in gioco, che accetta questa tipologia di relazione può arricchirsi attraverso il percorso scolastico. La relazione didattica non è quindi univoca, ma reciproca. La programmazione dell’insegnante è per principio provvisoria, poiché gran parte degli input li riceve in corso d’opera dalle soggettività in campo e non può non tenerne conto, pena la perdita della reciprocità e l’irrigidimento trasmissivo. La modestia è l’atteggiamento principe che accompagna l’insegnante che accetta questo “stile” di relazione nella costruzione del percorso scolastico.

Nella relazione didattica costruttivista ognuno/a entra con la propria soggettività, senza dover abbandonare nulla del proprio essere, tantomeno la propria identità di genere: non è un caso che uno dei momenti più produttivi di confronto negli ultimi anni sulla relazione didattica si sia prodotto in un convegno – Le maestre e il professore – in cui la soggettività sessuata è centrale.5In questa ottica le stesse discipline una volta entrate in un’aula scolastica diventano qualcosa di diverso da quello che sono nelle mani dello specialista: si trasformano in occasioni per un confronto a tema, “argomento di conversazione”, come sostiene Guido Armellini.6 La didattica si espleta nella costruzione di un sapere sempre nuovo, mai riproducibile e non codificato una volta per tutte.Con questo approccio è ridicolo pensare a valutazioni oggettive predisposte anticipatamente. Si deve invece partire dall’assunto che chi valuta e chi viene valutato fanno parte dello stesso processo e ne sono determinati. Anche nella valutazione quindi deve prevalere la modestia, la consapevolezza che molti aspetti dell’apprendimento non sono misurabili e molti altri generano facili fraintendimenti, per cui primo obiettivo è sempre quello di non nuocere. L’esigenza può comunque venire soddisfatta in modalità create in corso d’opera e possibilmente condivise con gli studenti. Il fine è quello di far emergere e chiarire, non di misurare, quindi il metodo dialogico e il confronto con altri docenti limita le possibilità di errore e aiuta a evidenziare sfumature che altrimenti andrebbero perdute: un’ulteriore ragione per difendere gli aspetti cooperativi del lavoro docente.Note

1 Nico Hirtt, La taille des classes est déterminante pour la réussite des élèves, “L’Ecole démocratique” n. 9 (mars 2002), http://users.skynet.be/aped

2 Cfr. ad esempio la bozza di piattaforma contrattuale 2002 della CGIL Scuola: “La necessità di superare l’uniformità retributiva, legata esclusivamente alla progressione per anzianità, attraverso la definizione di una “carriera professionale” che consenta un inquadramento retributivo più significativo è una sfida che riguarda pienamente gli insegnanti e la loro collocazione in un quadro europeo”

3 In realtà poiché la scuola è “comunità educativa”, esistono altri soggetti che gestiscono relazioni importantipensiamo principalmente ai collaboratori scolastici che, soprattutto nei livelli di scuola più bassi, sono quotidianamente a contatto con i bambini e le bambine in momenti cruciali della loro vita: igiene personale, assunzione del cibo, primo soccorso nel caso di infortuni. E’ quindi evidente che i processi di ristrutturazione al risparmio con esternalizzazione di servizi, come quello del cosiddetto “scodellamento” in mensa, ottengono l’effetto di disumanizzare ulteriormente il momenti cruciali della giornata come quello del pasto, gestito da lavoratori sottopagati sempre più anonimi e sconosciuti agli occhi di bambini e bambine.

4 Gérard de Sélys & Nico Hirtt, Tableau noir. Résister à la privatisation de l’inseignement, Bruxelles, Epo, 1998.

5 Le maestre e il professore, Atti del quinto incontro nazionale del movimento per un’autoriforma gentile della scuola, Roma 28-29 aprile 2001.

6 Guido Armellini, Le discipline sono un argomento di conversazione, In Le maestre e il professore, … cit.


Quaderno CESP n. 1. La scuola: prove di resistenza
Atti del seminario di auto-aggiornamento tenuto il 16 maggio 2002 presso l’ITIS Belluzzi di Bologna.
A cura di Gruppo Scuola del Bologna Social Forum e CESP – Centro Studi per la Scuola Pubblica, Bologna

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