Storia e memoria dei lager nazisti: il racconto di Nella Baroncini

di Rossella Ropa

“In nessun luogo la drammaticità dell’essere soggetto femminile è così forte e toccante come nelle narrazioni che testimoniano condizioni estreme, di reclusione fisica e morale”1

Parole, memorie, silenzi, delle donne

Diversi sono gli aspetti che si potrebbero mettere in luce sulla esperienza concentrazionaria, ma qui viene proposto quello che si ritiene essere un nodo tematico meno conosciuto, non sufficientemente indagato in ambito storiografico: la deportazione femminile nei lager nazisti. Avvenimento, questo, che ha conosciuto una sorta di rimozione: la ricerca non si è preoccupata di trovare delle categorie capaci di analizzare le esperienze delle deportate, che hanno invece caratteri propri, distinti da quelli maschili. La violenza subita dalle donne, infatti, si è tradotta in una sofferenza specifica, di una qualità diversa da quella patita dagli uomini.

Innanzitutto, nei campi di concentramento non c’è posto per le donne se non come massa indifferenziata di “schiave da lavoro”, l’identità femminile è del tutto irrilevante, caso mai fastidiosa, tanto che gli interventi sul corpo messi in atto dai nazisti – dalla rasatura al denudamento, dalle visite alle operazioni sull’apparato riproduttivo – tendono piuttosto a farne oggetti neutri o animali da laboratorio.

La perdita della identità femminile inizia immediatamente, al momento dell’arresto, quando le partigiane vengono sradicate dal proprio ambiente per essere gettate in un mondo incomprensibile, e continua fino al ritorno a casa, quando le ex deportate vengono accolte con noncuranza, scarsa attenzione, una accoglienza accompagnata anche da una totale assenza di riconoscimenti da parte delle istituzioni. Una forma di violenza “morale” questa che va ad aggiungersi alle molteplici subite nei campi di concentramento.

Naturalmente la vita in Lager è perfettamente congegnata dai nazisti per degradare ogni individuo – uomo o donna – alla pura percezione sensoriale del corpo, ai bisogni vitali, agli stimoli della fame, della sete, del caldo, del freddo, disgregando così ogni aspetto morale o spirituale. I bisogni primari, strazianti, che il corpo prova e sopporta sono poi condizionati dalla paura: paura nei confronti dei nazisti, paura nei confronti dei Kapò, dei compagni stessi, paura di non farcela, paura di morire.

Ora, rispetto a questo contesto, le privazioni e le sofferenze patite dalle deportate sono ancora più laceranti, particolari, perché vanno a colpire il corpo femminile, il luogo in cui si intrecciano i valori sociali dei quali la donna è depositaria, mettendo in atto quella che è stata definita dalle stesse testimoni “la spoliazione dell’identità femminile”.

L’attacco che le donne subiscono è terribile. La profanazione, la perdita della integrità passano attraverso vari momenti: esporre a sguardi sprezzanti ed indagatori il proprio corpo, abituato dal costume di allora a un pudore rigoroso; non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica, oltraggiata da rasature e costretta in divise o abiti assurdi. Patire una vita promiscua di cui non si ha alcuna esperienza, perdendo ogni intimità, ogni riferimento spazio-temporale. Assistere alla scomparsa delle mestruazioni e vivere questo fatto come un sintomo del “male” che è giunto ad intaccare le radici stesse della femminilità. Subire esperimenti che ledono la propria forza riproduttiva. Dover condividere questo martirio con le persone care, le madri, le sorelle, i propri figli, e assistere impotenti allo strazio delle loro morti. Vivere la maternità propria e altrui, affannandosi per nutrire un figlio che verrà spesso ucciso. Scoprire nelle donne, e sovente anche in se stesse, la violenza e l’insensibilità a cui la vita nei campi induce. In questo contesto è quasi impossibile restare quel che si era e non scoprirsi fredde e indifferenti al dolore e alla morte altrui.

Però permangono, nella vita in Lager, nella brutale quotidianità, intelligenze ed energie capaci di opporsi all’apparato nazista in tante forme, dalle più deliberate come il sabotaggio alla produzione di guerra e la resistenza clandestina, fino ad arrivare all’infinità di iniziative grazie alle quali le donne perseverano in quell’atto comunque sovversivo che è sfuggire alla morte.

Esistono, dunque, strategie di sopravvivenza, un insieme frammentario di opportunità e decisioni che mostrano il tentativo di mantenere la propria identità, la continuità con ciò che si è state, la tutela della propria immagine: sarà allora il ricordare la figlia, rivendicare con orgoglio la propria appartenenza politica, cercare di mantenersi pulite, o il raccogliere un pezzetto di carta da portare alla compagna perché possa documentare l’inferno del Lager. Non esclusa l’ostinazione a sopravvivere quando tutto è organizzato per il suo contrario: chi non muore nel tempo previsto dalle statistiche concentrazionarie è già una cattiva prigioniera.

Uno dei motivi che hanno portato al silenzio della storiografia su queste esperienze risiede nel fatto che questi gesti, questi sforzi non sono mai stati considerati come una forma di opposizione al nazifascismo, non potendo essere assimilati alla lotta armata, categoria con la quale è stata indagata per lo più la Resistenza.

La deportazione femminile quindi venne considerata un evento eccezionale o peggio un accidente della guerranonostante molte antifasciste e partigiane combattenti, proprio in quanto tali, siano state inviate in Lager.

Continuare ad essere donne, nonostante e contro le regole imposte in Lager, costituisce invece una forma di lotta antinazista, naturalmente condotta in forme all’apparenza minimali, come quelle descritte sopra, e non immediatamente “politiche” se non in sporadici casi. Una forma di “resistenza civile”, una resistenza senz’armi2.

Già Anna Bravo3 rivendicava l’esigenza di affermare un nuovo paradigma di cittadinanza, non più legato al diritto-dovere di portare le armi, il che rende gli inermi – le donne, i deportati, i prigionieri – cittadini di seconda classe, fondato invece su virtù civiche che da tutti possano essere pienamente condivise ed esercitate.

Solo così è possibile riconoscere e dare piena legittimità, accanto all’aspetto armato della lotta antifascista, anche alla opposizione non armata, alle forme di vera e propria “resistenza senza armi” che ci sono state, perfino in luoghi estremi come i Lager.

L’applicazione di questa nuova categoria storiografica – la “resistenza civile” – può consentire, dunque, di risalire a moventi, altrimenti inesplicabili, dell’agire individuale e collettivo: gesti, comportamenti, strategie di difesa, tutti fattori che presi in considerazione danno conto della ricchezza delle esperienze, non solo patite ma spesso agite, delle deportate.

E’ in questo senso che viene qui proposta la memoria di Nella Baroncini, militante antifascista che per la sua partecipazione alla Resistenza è stata, appunto, deportata4.

Dalla memoria alla storia: le fonti orali

Ci si avvicina con forte interesse, ma anche con ansia, a queste memorie, documenti estremamente significativi per la storia contemporanea e di alto valore etico per la società civile.

Spesso si prova una sorta di impotenza interpretativa; si avvertono i propri strumenti critici come invasivi e inopportuni, nonché spesso inefficaci. Scomporre criticamente una testimonianza pregna di dolore diventa una operazione che mette a disagio ed il cui risultato non è sempre sicuro.

Il problema principale è rappresentato soprattutto dalla trasmissione fedele di una esperienza così complessa: come rapportarsi con le testimoni, come chiedere senza esercitare forzature e pressioni, come far emergere le grandi potenzialità di queste memorie, esplicitando comunque che sono sollecitate da una estranea e quindi non completamente gestite da chi ricorda.

“Se il rischio dello storico è sempre quello di farsi prigioniero delle fonti, a noi il problema si poneva, e ancora si pone, con speciale intensità: perché le nostre fonti non sono testi e documenti, ma persone, e, soprattutto, persone al cui discorso la tragicità dell’esperienza dà una qualità umana e sociale particolare. Il racconto del sopravvissuto, di chi ha visto la morte e parla anche per i morti, ha una forza assertiva alla quale è difficile, forse ingiusto, sottrarsi; può innescare movimenti profondi di identificazione, o, all’opposto, spinte di fuga. E in chi ascolta cresce il timore di non saper comprendere questa parola, di tenersi aggrappato ai propri schemi di riferimento come ad una barriera difensiva, magari in nome di un’autonomia critica che è necessaria, ma che diventa ostacolo alla comprensione, quando non venga a sua volta analizzata”5.

E’ necessario avere consapevolezza di queste difficoltà e fare i conti con esse. Il primo problema mette in campo il ruolo dell’intervistatrice6 – argomento di cui spesso si è discusso in linea generale, ma che si ritiene vada definito di volta in volta all’interno della ricerca specifica – colei che suscita, sollecita e orienta il racconto. Piuttosto che garantire una imparzialità – praticamente impossibile – cercando di eliminare o camuffare l’influenza di chi ascolta e poi trascrive, è preferibile tenerla in considerazione usando alcuni accorgimenti, quali, ad esempio, quello di mantenere nella trascrizione le domande fatte durante le interviste, evitando, di “ricucire” le risposte in un racconto continuo, perché così facendo si trasforma un’informazione intermittente, sollecitata, a volte contraddetta o interrotta in un flusso narrativo continuo, che, inoltre, può sembrare provenire intenzionalmente dalle testimoni7. In questo modo è poi possibile fare un’analisi, seppur minima, del rapporto che intercorre e dell’interazione che si viene a creare tra i soggetti del colloquio.

“Al di là dei contenuti del racconto, il fatto che si racconti – in un dato clima generale, in certe condizioni specifiche, a certe persone – è di per sé un evento storico e politico su cui è importante riflettere”8.

Un’altra strategia adottata per meglio garantire la conservazione del punto di vista delle donne intervistate può essere quella di raccogliere storie di vita. Una scelta motivata anche dal desiderio di non considerare le donne solo come ex deportate, ma come individui con una loro esperienza complessiva, offrendo così la possibilità di collocare se stesse rispetto alla esperienza del Lager, e quella esperienza nel corso della loro vita. Ciò permette, dunque, di allargare la ricerca anche e soprattutto agli elementi della formazione culturale e politica, della vita quotidiana e affettiva precedente, fino a comprendere il momento del ritorno, quali il reinserimento, le difficoltà incontrate, il significato della deportazione nella memoria, gli stati d’animo successivi.

Inoltre: “la richiesta di inserire il racconto del campo nel complesso della biografia precedente e successiva crea le condizioni per cercare le radici delle diverse esperienze, i modi in cui la loro specificità si è determinata e manifestata”9.

Il Lager, infatti, segna in modo indelebile la vita delle donne agendo su identità che risultano, a volte, profondamente modificate, ma non per questo appaiono poi simili. E’ dunque necessario tenere e dare conto non solo delle particolarità della esperienza vissuta, ma anche inserire tale vicenda nell’intera vita delle ex deportate, evitando di interpretarla come esaustiva della personalità e uguale per tutte. Ogni esperienza è unica, proprio perché interagisce con la soggettività di ogni donna.

Per non eliminare importanti parametri soggettivi e per evitare distorsioni interpretative si può scegliere di offrire il testo integrale delle interviste usando il metodo della trascrizione adattata10, vale a dire una riproduzione la più fedele possibile del parlato delle testimoni, mantenendo ripetizioni, esitazioni, silenzi e introducendo solo alcune informazioni esterne al racconto che riguardano soprattutto segni comunicativi non verbali, e traducendo le frasi in dialetto, anche se ciò può causare un affaticamento nella lettura del testo.

Il tentativo di presentare la fonte nella forma più vicina all’originale nasce dall’esigenza di valorizzare, oltre ai contenuti informativi, il contesto soggettivo di chi parla, cercando di mantenere inalterati elementi significativi che segnalano valenze culturali, ideologiche, sociali, consapevoli comunque del fatto che non è mai possibile, per la scrittura, rappresentare realmente quanto raccontato oralmente tramite una semplice operazione di trascrizione e che spesso così facendo non è possibile rendere esplicito ciò che è sottinteso o rilevante nel parlato ma non riproducibile11.

Il questionario, o meglio la griglia, a cui viene sottoposta la testimone deve essere pensato come ausilio al racconto e non certo come rigido strumento di selezione dell’esperienza. Le domande non vengono poste in modo da determinare in modo inflessibile il percorso della narrazione e spesso molti argomenti previsti non sono affrontati. Si devono tenere presenti anche certi limiti, da valutare caso per caso, oltre i quali non si va. E’ forse meglio rinunciare ad informazioni o dati piuttosto che forzare le testimoni a raccontare ciò che stimano giusto tacere. Si devono accettare, nel rispetto delle donne che narrano, i silenzi, le reticenze, i vuoti di memoria.

A proposito del racconto di vita, comunque, è possibile riscontrare una maggiore volontà di discorrere sulla esperienza concentrazionaria, piuttosto che sul “prima” e il “dopo”. I momenti della vita precedente sono in genere condensati a spiegare i motivi dell’arresto, la scelta fatta contro il regime fascista – aspetto che segnala una preminenza assegnata al versante politico della loro vita rispetto alle altre componenti – mentre gli eventi successivi al ritorno non sempre vengono ritenuti rilevanti per chi ascolta o comunque esiste un certo riserbo sul periodo successivo della vita che viene avvertito come estremamente privato.

Esiste, inoltre, una sorta di incertezza sull’importanza della esperienza vissuta, sull’interesse che la propria storia può suscitare in altri. “Ma è sicura di voler intervistare proprio me?”, questo dubbio ha sicuramente radici lontane, dice molto della sottovalutazione a cui sono state esposte le loro vicende al momento del ritorno, suggerisce l’idea di un racconto lasciato senza interlocutori, segnala una esperienza rimasta taciuta. Restituire a queste donne e alle loro vicende una rilevanza può essere allora un atto doveroso seppur tardivo.

L’intervista di Nella oscilla tra intenzione di rendere una testimonianza storica – fornendo dati e all’inizio parlando con il “si” impersonale – e la libera narrazione, con infiltrazioni di accadimenti più personali.

Nella, poi, nel raccontare si preoccupa di precisare il grado di approssimazione delle sue affermazioni – “Non ricordo bene” -; di circoscriverne la portata – “Per quel che ne so io” -; di dichiarare le fonti – “L’ha scritto anche la Rolfi”12, “Questo lo puoi trovare scritto in Lidia Rolfi”-; chiamando in causa il testo scritto a supporto della verità affermata. Questi “intercalari del discorso” sono “indizi che dicono molto sul modo in cui fatti e immagini stanno nella memoria”13.

Un’altra forma narrativa spesso presente nel colloquio – “Allora non era come adesso”- dà il senso di quanto voglia farsi capire da chi l’ascolta, tenendo conto del fatto che l’intervistatrice appartiene a una generazione con riferimenti culturali e sociali diversi dai suoi. Quando parla della vergogna provata nel mostrare il proprio corpo, ad esempio, si preoccupa di spiegare come il costume sia mutato in 60 anni e come, per comprendere il suo profondo disagio, si debba compiere un non piccolo salto temporale.

Anche prestando attenzione a certe caratteristiche del narrare – l’uso di metafore o aneddoti, la presenza di ripetizioni o di soggetti impersonali – è possibile risalire, poi, sia alle identità culturali che alla tradizione specifica di narrazione del Lager. Queste forme narrative, infatti, oltre ad indicare situazioni problematiche, nodi del discorso, sono le forme – non casuali – che le testimoni scelgono come più adeguate per trasmettere la propria esperienza.

L’uso degli aneddoti è particolarmente significativo in quanto esso può essere considerato un “piccolo discorso coerente, sigillato nel passato e relativamente impermeabile alle modificazioni del presente”14. É certo possibile immaginare come alcuni episodi particolarmente traumatici della vita in Lager si siano fissati in memoria e vengano riprodotti, nel parlato, tramite forme aneddotiche: sono così rimaste intatte le immagini, la disperazione provata, le parole dette o sentite., forse sono sfuggiti dati e nomi ma non il resto.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è costituito appunto dal trascorrere del tempo: i fatti non sono coevi ai racconti ed è quindi necessario fare i conti con la memoria.

“Sono passati 50 anni e la memoria ha lavorato nel tempo, ponendosi domande, cercando un senso all’accaduto, anche solo individuale, provvisorio, magari negativo. Quanto sia costato questo impegno di sistemazione e interpretazione dell’esperienza si sente in tutti i discorsi, e da molti viene detto: possono essere necessari anni per staccarsi dal passato abbastanza da fare di sé un io che racconta e non solo un io che soffre.

Dove lo sforzo non è riuscito, le parole restano frammentarie, spesso indimenticabili nella loro immediatezza, ma deboli nel restituirci fatti e significati”15.

Ogni esperienza non è mai completamente ricordabile, ogni avvenimento non è mai completamente comunicabile e la trasmissione sarà sempre parziale: questo vale a maggior ragione per la memoria del Lager, una memoria traumatizzata, con la quale faticosamente e dolorosamente le ex deportate si confrontano. In questo senso, allora, è possibile incontrare nel racconto zone di silenzio o “discrepanze tra un contenuto emotivo evidente e lo spazio che gli è concesso, tra la crudezza di un evento e la forma in cui viene narrato”16, e ancora inesattezze, lacune, distorsioni.

“La memoria non è il magazzino del passato, ma l’atto che lo richiama in vita dandogli senso: anche le dimenticanze e le inesattezze sono importanti perché raccontano la storia delle illusioni, delle consolazioni, di quello che poteva essere e non è stato”17.

Riconoscendo però lo sforzo che le donne hanno fatto, sfidando l’indicibilità dell’esperienza vissuta, si può accettare queste parzialità ed elaborarle in modo che le parole e le intenzioni delle testimoni non risultino impoverite.

Spesso poi quello che viene detto oggi deriva da una elaborazione del vissuto che dura ormai da 60 anni: è una interpretazione del passato.

“Chi parla è costruito dalle sue esperienze successive e, proprio per questo, difficilmente riesce a comunicare il senso del suo antico vissuto: alcune parti del passato sono state cancellate, altre sono state metabolizzate nel processo di crescita dell’individuo, talvolta una nuova necessità del presente, sempre mobile, provoca nuovi oblii, mentre quanto si era dimenticato riemerge per costruire quell’esempio di storiografia teleologica, ma in carne ed ossa, che siamo noi in rapporto al nostro passato”18.

Ma proprio il “farsi del discorso” – con le sue ripetizioni, lapsus, salti cronologici, nella fatica di dare forma a quello che si vuole dire – rivela le molteplici stratificazioni della memoria; insieme ai fatti riemergono le antiche interpretazioni di essi e il sistema di valori che al tempo orientava i comportamenti delle testimoni19.

“Il rapporto della memoria con l’evento è per noi prezioso: perché nell’intervista agiscono momenti diversi della memoria, spesso contraddittori: quello in cui si è formata; le sue risistemazioni nel corso dei mutamenti storici e delle vicende personali, in una interazione passato-presente che sembra aver trovato sempre più difficile dare un senso all’esperienza; infine i modi in cui ora si esercita nel dialogo.

Qui, a differenza che sulla pagina, la parola non può tornare indietro a correggersi. Non perché sia negato al testimone, e a noi stessi, il diritto di ‘cancellare’ quel che è stato detto, di formulare diversamente una risposta (e magari una domanda). Ma perché quella cancellazione, mentre elimina la parola, sottolinea un problema, si offre come elemento importante per capire il contesto del racconto, nel duplice senso di orizzonte storico e di luogo di un dialogo. E’ in rapporto a questo contesto, non in astratto, che il discorso rivela i suoi molteplici contenuti di verità: quella della informazione puntuale, che illumina luoghi inesplorati del passato e può imporre la ridiscussione di linee storiografiche esistenti; quella degli scarti e delle distorsioni, che possono dirci molto su come funzionano la memoria e l’immaginazione di fronte a determinati eventi e situazioni”20.

Si sottolinea così il contenuto di autenticità che presentano queste testimonianze, rilasciate proprio dopo 60 anni per una esigenza profonda: contrastare l’oblio, ristabilire la verità di quello che è stato.

Il racconto di Nella

Nella nasce a Bologna il 26 agosto 1925, viene arrestata con tutta la sua famiglia – padre, madre e due sorelle – il 24 febbraio 1944 per attività antifascista.

Viene rinchiusa con la madre Teresa Benini e la sorella maggiore Iole a S. Giovanni in Monte, mentre il padre Adelchi e Lina, che si assume tutta la responsabilità per cercare di discolpare le altre, sono detenuti al comando SS per oltre un mese.

L’intera famiglia si ricongiunge a Fossoli il 6 maggio 1944, dove rimane per tre mesi. Il 2 agosto le donne sono deportate a Ravensbrück, mentre il padre viene portato a Mauthausen e successivamente al Castello di Hartheim, dove troverà la morte presumibilmente nel gennaio del 1945. La madre e la sorella Iole moriranno a Ravensbrück rispettivamente il 26 gennaio e il 4 marzo 1945, mentre Nella verrà liberata il 30 aprile 1945 e riuscirà a tornare a Bologna solo nell’ottobre dello stesso anno, dove ritroverà la sorella Lina dalla quale era stata divisa negli ultimi mesi.

Nella ha già rilasciato interviste21, ed è forse questo il motivo che la spinge ad essere riluttante, in un primo momento, a raccontare nuovamente.

A registratore spento, confessa di essere stanca di essere considerata un “simbolo” della deportazione femminile bolognese, le pesa forse questo “ruolo” di ex deportata. Inoltre è grande il suo rammarico per coloro che sono morti e che nessuno ricorda. Di loro vorrebbe piuttosto narrare:

“Di questi morti non si parla mai, non se ne parla più; ecco a noi dispiace più questo che… preferiremmo che venisse messa in luce questa gente [piuttosto che raccontare la nostra storia]”.

Ma le compagne morte a Ravensbrück possono rivivere nel ricordo, attraverso le sue parole, ed è questo argomento che la convince.

Nell’intera testimonianza è segnalata la difficoltà del raccontare l’esperienza estrema, di rendere a chiare lettere la sofferenza patita, soprattutto a chi non l’ha direttamente vissuta:

“Detto così è roba da ridere, ma pensare alle condizioni che ci potevano essere là”.

“Raccontare adesso vedi… ormai sembra di raccontare una cosa… sembra quasi assurdo a noi che lo raccontiamo, ti dico la verità, perché raccontato con le emozioni di allora è un conto, raccontato già ‘accomodato’ con le emozioni di oggi naturalmente attutite, è tutta un’altra cosa”.

Nella sottovaluta la forza delle sue parole, che offrono invece non solo immagini chiare e immediate ma spesso anche nuove del Lager, soprattutto per la condivisione dell’esperienza con la madre e le sorelle, un aspetto particolare che si trova difficilmente descritto.

La fatica di dare forma a quello che vuole dire – una realtà difficilmente immaginabile e descrivibile, con i suoi movimenti mentali e le sue contraddizioni, con le tracce che Ravensbrück ha impresso nella memoria -, coinvolge profondamente, suscita emozioni forti e indimenticabili.

É percepibile l’accumulo di dolore e il rischio emotivo che implica ricordare e raccontare, anche se Nella cerca di non farlo trasparire, sorridendo spesso e sottolineando certi aspetti e situazioni della vita in Lager con ironia e commenti che servono a sdrammatizzarli. E la rappresentazione che ne emerge corrisponde a quella di una donna che, pur dolorosamente ma anche con estremo coraggio, ha fatto i conti con il proprio traumatico passato, riuscendo a trovare un equilibrio.

Nella si impegna poi ad attualizzare alcuni aspetti della vicenda misurandoli col presente, usa riferimenti a realtà che possono essere note anche a chi appartiene a una generazione diversa dalla sua, per farsi comprendere meglio. Ad esempio, quando racconta della malattia che l’aveva colpita al campo:

“Oggi parlare di TBC e pleurite, oggi è un’altra cosa… ormai ci sono delle medicine… ma allora era il male… era il tumore di oggi, ecco, se non peggio”.

A tratti, poi, si avverte una certa diffidenza verso l’invasione della propria soggettività nel racconto: cerca di generalizzare, usa il “si” impersonale, ma poi sembra cedere, quasi ammettendo che la realtà dell’esperienza vissuta è priva di significato senza un coinvolgimento dell’io, allora comincerà a raccontare fatti ed eventi personali.

Colpisce immediatamente il modo in cui rivendica l’autonomia della scelta a partecipare alla lotta antifascista, decisione pagata a caro prezzo.

“Siamo state noi che abbiamo detto: ‘E’ possibile che non possiamo far niente?’, non è che nostro padre ci abbia imposto nulla… invece no, siamo state noi che abbiamo voluto”.

Anche se poi sminuisce l’importanza del lavoro politico svolto, nonostante la sua abitazione fosse un centro per la produzione della stampa clandestina.“Praticamente io mi sento di non aver fatto niente di utile per la Resistenza”.

“Vedi i partigiani hanno qualcosa di interessante da raccontare, noi [deportati] abbiamo solo disgrazie!”.

Nella, in questo caso, ha fatto suo e riporta il punto di vista da molti condiviso nell’immediato dopoguerra:

“Nelle rappresentazioni ufficiali e nell’immaginario diffuso, partigiano è chi, dopo aver combattuto in montagna, né è sceso nei giorni della liberazione, si è scontrato con gli ultimi fascisti e tedeschi, ha sfilato in corteo nelle città, incarnando anche visivamente l’irrompere del nuovo nelle istituzioni e nella quotidianità. Altra cosa i deportati, meno ‘spettacolari’, meno numerosi, portatori di significati ben più inquietanti – e forse proprio per questo visti semplicemente come vittime di un orrore impreciso e lontano”22.

Dicevamo poi del rapporto con le donne della sua famiglia, sostegno contro la vita infame di Ravensbrück ma anche fonte di profondo dolore.

Esse cercano di rimanere unite, rifiutando persino una sistemazione migliore nel campo esterno di Siemens:

“Noi abbiamo sempre cercato di non separarci… non potevamo andarci [alla Siemens, dove avrebbero potuto lavorare al coperto] o andarci tutte… e per non separarci abbiamo sempre cercato di star lì [a Ravensbrück]”.

E ancora, rinunciano ad alcune fette di pane per barattarle con un indumento di lana da regalare alla madre, che cercheranno sempre di proteggere. Certamente la cura verso di essa è servita per conservare una dimensione umana, per difendersi dall’imbarbarimento, ma, allo stesso tempo, ha esposto al pericolo distruttivo dell’abbandono: Nella, infatti, ha assistito impotente ai tormenti e alla sua morte:

“Nostra madre, poveretta, l’abbiamo vista fino all’ultimo; proprio si è finita, finita… sai, la candela che si consuma”.

Attraverso le sue parole rivive anche un’altra figura molto amata, quella della sorella maggiore Iole. Nella conserva con cura alcuni messaggi che Iole riuscì a mandarle quando entrambe erano ammalate, ma separate perché rinchiuse in due blocchi diversi.

“Queste letterine per me sono oro… perché in quel periodo mia sorella era pienamente cosciente, faceva coraggio a me, parlava di quando saremo tornate a casa”.

Nella per molto tempo non si è rassegnata alla morte della sorella, vittima presumibilmente di una selezione, e forse ancora ne porta il lutto:

“Poi le chiamarono da tutte le infermerie, poi, poi niente… Si seppe, si seppe… ma non ci ho mai creduto a dire la verità, però dopo parecchi anni ho dovuto convincermi che era così”.

Rimasta sola – la sorella Lina fu trasferita nel campo di Rechlin nel febbraio del 1945 – stringe amicizia con Julka Deskovic, una partigiana slava arrestata a Parma e morta alcuni giorni dopo la liberazione del campo, con la quale condivide gli ultimi periodi a Ravensbrück. La solidarietà è forte, cercano conforto una nell’altra nei momenti più tragici:

“Era una gran compagna per me”.

Il rapporto con Julka assume un significato ancor più rilevante se si pensa all’isolamento a cui erano sottoposte le italiane, espressamente messo in luce da Nella in tutto il racconto, ostracismo che risalta maggiormente se contrapposto al legame che esisteva, e che la testimone sottolinea, tra gli altri gruppi nazionali presenti a Ravensbrück:

“Le francesi erano molte, le polacche erano molte ed erano tutte abbastanza organizzate, noi italiane, poverine, eravamo proprio le ultime… Noi italiane eravamo sempre molto isolate”.

Alle italiane toccavano i lavori peggiori, le razioni ridotte, venivano cacciate in malo modo perché considerate sporche:

“Tutte avevano i pidocchi, però ti dicevano che le italiane avevano i pidocchi, era fatto così il mondo del campo, era fatto così, specialmente per noi italiane, non sapevamo una parola, non sapevamo arrangiarci”.

“Dovevi metterti in fila e naturalmente noi finivamo sempre per essere le ultime e quando arrivavamo noi c’erano solo le briciole”.

La lotta incessante per una sopravvivenza elementare spinge a difendere il poco che si ha. Anche Nella, che in tutto il racconto compare sempre mite ed arrendevole, si ribella e difende il piccolo spazio conquistato faticosamente:

“Avevamo una cuccetta dove c’era un pochino di luce, alla sera quando venivamo a casa da lavorare avevamo questo po’ di luce”.

Una sera trovano il posto occupato da due francesi:

“Facemmo una gran lite (…) e alla fine l’ho avuta vinta io, siamo rimaste lì (…) Sono riuscita a rimanere nella mia cuccetta dove c’era un po’ di luce”.

Queste sono, in fondo, le piccole strategie per mantenere il rispetto di sé, gesti concreti di contestazione che l’impotenza di fronte agli avvenimenti non impedisce a volte di riaffermare, come in questo caso il diritto di avere un piccolo angolo privato, un esiguo spazio per sé.

Nella poi sottolinea come i valori morali e sociali dei quali le donne sono portatrici, siano stati messi a dura prova in Lager. Ravensbrück non solo stravolge totalmente l’ordine di quei valori, ma ottunde anche le sensibilità. La donna deportata viene privata da subito della sua dignità, del pudore che circonda il suo corpo, che diventa così un fatto pubblico, mentre il comune senso morale dell’epoca considerava con grande riservatezza. Nella racconta dei primi atti di degradazione subiti, cogliendo anche il progressivo abbrutimento che le rendeva meno sensibili:

“Hanno cominciato a farci spogliare nude, ti puoi immaginare… dopo ormai ci avevamo fatto l’abitudine, ma appena arrivate… Allora eravamo ancora sensibili a queste cose, dopo ce ne fregavamo”.

Ma ancor di più pesa la vergogna provata dalla madre: il corpo segnato dall’età ed esposto al pubblico violenta il codice morale che pretende rispetto per la donna anziana:

“Specialmente… specialmente per nostra madre, ti puoi immaginare, vissuta in campagna… ecco, era una cosa che non sopportavamo”.

Il corpo delle donne viene deturpato, svilito, brutalizzato. Attraverso il corpo, o meglio attraverso la sua riduzione a continua fonte di sofferenza, le deportate “capiscono” il Lager.

Un altro aspetto strettamente legato al vissuto corporeo è rappresentato dalla cessazione del ciclo mestruale. Nella ha la convinzione molto forte e radicata che le mestruazioni siano state bloccate volontariamente dai nazisti, attraverso la somministrazione di sostanze chimiche nel cibo.

“Era qualcosa che ci mettevano nel mangiare, perché non è possibile che a tutte quante, in 45 che eravamo [nel blocco], ci si fermino le mestruazioni e ci son tornate a due mesi dalla liberazione”.

L’idea che possa essere stata una sostanza chimica a interrompere il ciclo garantisce psicologicamente il completo recupero della salute una volta rimossa la causa esterna, una volta riguadagnata la libertà.

Secondo Elemer Gyarmati, docente di clinica ostetrica e ginecologica all’università di Torino, l’amenorrea era “inizialmente di origine psicogena e dipendeva da alterazioni funzionali diencefalo-ipofisarie che potevano portare ad alterazioni anatomiche ovariche ed uterine e alla sospensione duratura e talvolta definitiva delle mestruazioni, con relativa sterilità”23; in poche parole una amenorrea secondaria dovuta alle estreme privazioni. Comunque, l’immagine comunicata è quella ancora una volta della profanazione del corpo della donna, della perdita della sua integrità fisica.

Una costante nel racconto di Nella è il tema del cibo. Quasi ossessivo, questo aspetto presenta più elementi: sfida ironica alla fame, mezzo di comunicazione, ma anche modo per collegarsi al passato – il ricordo del cibo di casa – o immaginarsi il futuro – il pranzo che le aspetta una volta liberate.

“Perché lì si finiva in genere a parlare di mangiare, avevi una fame che non ne potevi fare a meno”.

“Dopo un po’ ci siamo ritrovate che dicevamo ‘Adesso cosa mangiamo per merenda?’ [naturalmente scherzando]”.

Il cibo perseguita Nella anche nei sogni, da cui, però, non trae nessuna soddisfazione:

“Quel sogno lì mi è rimasto impresso per un pezzo, che ci ho pianto sopra: venivo a casa da lavorare in bicicletta, ho fatto tutta via San Vitale, ho portato in casa la bicicletta, e la tavola era tutta imbandita e c’era della minestra brodosa, mi son lavata le mani, mi sono messa a sedere, ho preso il cucchiaio in mano e mi son svegliata… guarda, ti dico che ho pianto, insomma è assurdo ma ho pianto”.

Un altro capitolo toccante della storia di Nella è costituito dal ritorno, un momento che avrebbe dovuto essere vissuto felicemente e invece è stato sofferto e lacerante. Dopo un’esperienza come questa tornare a vivere liberamente è estremamente faticoso: richiede una profonda elaborazione delle vicende vissute, un riadattamento lento e graduale.

Nella ne è consapevole da subito:

“Il giorno della liberazione, prima è stata una gran festa… poi ci siamo guardate in faccia con Julka e abbiam detto: ‘E adesso? Anche se torniamo a casa… come sarà?’ Allora lì ho capito tutta la tragedia… tutta la tragedia”.

E’ sola, sua madre è morta, non ha più notizie delle altre sorelle e del padre, teme quindi il momento del ritorno:

“Non avevo il coraggio di arrivare fino a Bologna (…) fino a casa, perché non sapevo più niente di nessuno, ero rimasta sola”.

A Bologna ritroverà poi la sorella Lina, unica superstite dell’intera famiglia, e gli effetti di Ravensbrück continueranno a farsi sentire per tutta la vita:

“Ho un rammarico, che non posso dire: ‘Se avessi vent’anni di meno, o trent’anni di meno’ perché quaranta anni fa stavo peggio di adesso [sorride]. E quando ci penso mi spiace, perché non posso neanche dire questo. Tutto quello che ricordo è sempre una gran stanchezza, piena di mali, di dolori, piena di acciacchi (…) Le conseguenze me le sono sempre portate dietro”.


NOTE

1 Luisa Passerini, Storie di donne e femministe, Torino, Rosenberg & Sellier, 1991, p. 32.

2 Cfr. Dianella Gagliani, Elda Guerra, Laura Mariani, Fiorenza Tarozzi, Il racconto della Resistenza femminile. Tradizione e ricerca, in P. P. D’Attorre, M. Ridolfi, Ravenna e la Padania dalla Resistenza alla Repubblica, Ravenna, Longo Editore, 1996, p. 86.

3 Cfr. Anna Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari, Laterza, 1991.

4 L’intervista – raccolta insieme ad altre, nell’ambito di una ricerca sulla deportazione femminile da Bologna e provincia – è conservata nell‘Archivio della memoria delle donne presso il Dipartimento di discipline storiche dell’Università di Bologna.

5 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, Prime riflessioni sulla raccolta delle storie di vita degli ex deportati residenti in Piemonte, in Consiglio regionale del Piemonte-ANED, Il dovere di testimoniare, Milano, Franco Angeli, 1983, p. 147.

“Figura così importante ma così trascurata, colui che alcuni pensano debba sparire, nascondersi il più possibile per non influenzare un campo che, così credono, sarà tanto più ricco di informazioni quanto meno l’intervistatore avrà esibito la sua presenza. Ma colui che, per così dire sdoppiandosi, riappare sotto la forma tutt’altro che negletta di autore che (talvolta) trascrive e (quasi sempre) reinterpreta le interviste trascritte, utilizzandole per scrivere un testo finalmente ‘suo’ “. In Giovanni Contini, Alfredo Martini, Verba Manent. L’uso delle fonti orali per la storia contemporanea, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 12.

7 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 13.

8 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 148.

9 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 153.

10 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 140.

11 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 140.

12 Il riferimento è qui al testo, già citato, di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück.

13 Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 37.

14 Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 31.

15 Anna Bravo, Daniele Jalla, op. cit., p. 35.

16 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 160.

17 Anna Bravo, Daniele Jalla, op. cit., p. 36.

18 Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., pp. 29-30.

19 Cfr. Giovanni Contini, Alfredo Martini, op. cit., p. 30.

20 Anna Bravo, Anna Maria Bruzzone, Federico Cereja, Brunello Mantelli, op. cit., p. 157.

21 La sua testimonianza è apparsa in Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978; Alfonso Gatto (a cura di), Il coro della Guerra. Venti storie parlate, raccolte da A. Pacifici e R. Macrelli, Bari, Laterza, 1963 e in Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1980, vol. V.

22 Anna Bravo, Daniele Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, Milano, Franco Angeli, 1994, p. 21.

23 Elemer Gyarmati, Note sulle conseguenze patologiche della deportazione femminile, in “Quaderni del Centro Studi sulla Deportazione e l’Internamento”, n. 4, 1967, p. 57.


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