Un insegnante scrive a “Repubblica”

Spesso l’immagine della scuola reale fatica a passare attraverso gli organi di informazione mentre diviene senso comune un mix di pregiudizi e di veline ministeriali. Così viene voglia di scrivere ai giornali per chiarire, spiegare, …

Ecco una lettera di Enzo, insegnante, indirizzata a Repubblica nei giorni di apertura dell’anno scolastico.

Gentile dott. Augias,

leggo con attenzione gli articoli che i quotidiani dedicano alla scuola e alle sue innovazioni, sempre più spesso facendo fatica a riconoscervi la mia esperienza di insegnante.

Per esempio, nell’articolo del 13 settembre che dà conto dei provvedimenti ministeriali ultimi, si legge che la “riforma” permetterà lo studio di “nuove materie e il recupero di alcune classiche: grammatica e geometria”. Ohibò, e quando avevamo smesso di praticarle? È imbarazzante questa dichiarazione e mi preoccupa che i genitori la prendano sul serio. Tranquillizziamoli: la geometria e la grammatica sono vive e lottano insieme a noi.

C’è tuttavia dell’altro. Per esempio in molte regioni italiane abbiamo sempre insegnato anche l’inglese e l’informatica; nel mio Circolo in alcuni casi l’inglese come gioco veniva proposto anche ai bambini della scuola dell’infanzia per due ore la settimana; fino a quando il ministro non ha deciso che occorreva risparmiare e ha tagliato fondi e personale. Così adesso non abbiamo gli insegnanti per fare un’ora di inglese (una sciocchezza evidente dal punto di vista della didattica) laddove prima ne facevamo tre.

Ben prima di questa “riforma” abbiamo utilizzato le sperimentazioni locali e la legge sull’autonomia: laboratori di alfabetizzazione per i bambini stranieri, attività di recupero per i bambini italiani in difficoltà, laboratori di informatica nei quali i computer vengono utilizzati come strumenti per potenziare gli apprendimenti e la conoscenza del mondo circostante. Per dire soltanto di quello che questa “riforma” ci illustra come novità assolute, tacendo delle centinaia di altre esperienze originali sparse dovunque in Italia.

Ma non basta: le scuole hanno utilizzato da anni i piani individualizzati per permettere ai bambini di seguire lezioni individualizzate nelle ore di contemporaneità degli insegnanti e di recuperare almeno in parte gli svantaggi sociali e culturali che li dividono dai compagni più fortunati. Un qualsiasi studente di scienze dell’educazione potrà dirle che il piano personalizzato invece certifica e cristallizza queste differenze, amplificandole nella maggior parte dei casi proprio perché le scuole non potranno più attuare interventi compensativi.

Per fare tutte queste cose è importante “avere tempo”: tempo per stare con i bambini, parlargli e lasciarli parlare, capirne le esigenze, seguirne le inclinazioni, condividerne le esperienze, guidarne le qualità e permettere anche l’espressione di capacità che a volte la sola didattica non consente di sviluppare. È anche per questo, non soltanto come esigenza sociale, che in molte regioni l’esperienza del tempo pieno è importante; ed è per questo che la riduzione a 27 ore del tempo scuola per molti bambini che avrebbero bisogno “di tempo” sarà un passo indietro.

L’insegnante “tutor” non c’è, lo ammetto; ma per quanto abbia letto con attenzione tutti i documenti ministeriali, l’unico scopo che ho trovato per questa “innovazione” che c’era quarant’anni fa, è il taglio di altre 50.000 cattedre circa, degli ultimi laboratori, delle ultime esperienze di sostegno e supporto ai bambini in difficoltà.

Sarebbe onesto aggiungere infine che i tagli non hanno risparmiato il personale collaboratore, in numero tale da non consentire la sorveglianza dei corridoi e degli spazi comuni, l’ausilio ai bambini con difficoltà psicomotorie, la concreta realizzazione dei piani di sicurezza e di evacuazione delle scuole, l’adeguata pulizia degli edifici, la fruizione degli edifici in orario extra scolastico.

Ecco, di tutto questo trovo poche tracce nei quotidiani nazionali. Occorrono forse troppe righe e già così io stesso ho preso troppo spazio, mentre ci sarebbe ancora tanto da dire e non vorrei a questo punto che il Presidente del Consiglio pensasse che quest’anno mi impegnerò meno degli anni scorsi per fargli dispetto. Gli parlerei volentieri dell’etica del lavoro e del senso di appartenenza allo Stato Repubblicano e alla sua Storia che il personale della scuola condivide con altre categorie di lavoratori e di servitori dello Stato; ma ho superato qualsiasi limite di spazio per una rubrica delle lettere e del resto discutere di etica con molti esponenti di questo governo potrebbe rivelarsi impresa temeraria perfino per Spinosa.

Cordialità,

Maestro Vincenzo Manganaro,

scuola De Amicis, Direzione Didattica 1° Circolo di Bologna

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