Sulla logica del discorso razzista

di Alberto Burgio

[Testo di una relazione presentata al convegno internazionale “Europa” svoltosi a Napoli nel 1993 per iniziativa dell’Ist. Italiano per gli Studi Filosofici, poi pubblicato su A. Burgio, La guerra delle razze, Roma, Manifestolibri, 2001].

 Non racconterò una storia: cercherò di presentare una discussione teorica, che naturalmente dalla storia prende spunto e con la storia cerca di fare i conti – una discussione dell’idea di razzismo e una sorta di tentativo di ridefinire questo termine in una maniera che, appunto, prenda sul serio la storia e i problemi che questa ha via via posto.

Per entrare subito in tema, direi che se dovessi porre una epigrafe ad introdurre questo discorso la trarrei da un classico della psicologia novecentesca, Pensiero e linguaggio di Lev Vygotskij. Vygotskij afferma che un dialogo “richiede sempre che gli interlocutori sappiano di che cosa si tratta”, siano al corrente dell’argomento e conoscano già sin dall’inizio soggetto e tema della conversazione1. Ebbene, se noi ipotizzassimo che l’argomento di questo immaginario dialogo sia il razzismo, il presupposto di Vigotskij sarebbe falsificato. Quando ci sono di mezzo il razzismo, la razza e le teorie razziste o “razziali”, ciascuno di noi ha in mente cose diverse: ancora oggi, a dispetto del fatto che di questo tema si parla da decenni (e in qualche misura potremmo dire, ma forse già fraintendendoci, da secoli). Beninteso, questo scarto in qualche modo si verifica sempre: però nel caso della razza e dei razzismo davvero noi ci muoviamo nella preistoria di una trattazione scientificamente accettabile. Non vorrei sembrare presuntuoso, dare l’impressione di pensare di essere in possesso di una nuova teoria, finalmente “vera”. Ritengo tuttavia che in tema di razza e razzismo siamo alle prese con fondamentali problemi definitori, semantici ancora lontani dall’essere, non dico risolti, ma persino messi a fuoco.

Per avvalorare questa desolante considerazione comincio con una duplice citazione che traggo da uno dei più affidabili strumenti enciclopedici di grande divulgazione, una enciclopedia in un unico volume della Zanichelli, un’opera importante, non tascabile, un attendibile centrifugato, per dir così, del ‘senso comune colto(ed è proprio in considerazione di tali pregi chemi sembra corretto assumerla come pietra di paragone in queste riflessioni). Questa citazione riguarda i lemmi razza razzismo che, come vedremo, sintetizzano con chiarezza quello che tutti noi, in maniera più o meno consapevole, possiamo condividere. Secondo questa enciclopedia la razza è “l’insieme degli individui di una specie animale o vegetale, che si differenziano da altri gruppi della stessa specie, per uno o più caratteri costanti o trasmissibili ai discendenti”. Quindi siamo dentro un insieme – la specie – all’interno dei quale la razza si distingue dalle altre componenti in base a elementi che si trasmettono di generazione in generazione. Passando al caso specifico della specie umana, questa definizione continua: “relativamente all’uomo, la razza, è una suddivisione degli abitanti della terra, secondo determinati caratteri fisici, tipici di ogni gruppo: colore della pelle, forma degli occhi e del cranio, statura media”.

Fin qui, dicevo, difficilmente potremmo eccepire alcunché. Abbiamo i generi e dentro i generi le specie, cioè le razze, caratterizzate da caratteri fisici trasmissibili. In questo caso chi ha composto i lemmi si rende la vita particolarmente facile facendo riferimento a caratteri fenotipici, cioè visibili, ma si potrebbe estendere la definizione a caratteri non immediatamente visibili:

fin qui non c’è problema. Se però passiamo alla seconda citazione, quella che riguarda il concetto di “razzismo”, si pongono immediatamente diversi problemi. Per l’enciclopedia il razzismo è una teoria che “esalta le qualità superiori di una razza umana e afferma la necessità di conservarla pura da ogni commistione con altre razze, respingendo queste o tenendole in uno stato di inferiorità”. Che cosa è legittimato a pensare il lettore della enciclopedia Zanichelli?

11 lettore a questo punto penserà che – posti un genere e le sue varietà specifiche, individuate da caratteri ereditari – il razzista sia colui che, data tale base, afferma: “mi vanno talmente bene i caratteri di questa razza che adesso io mi batto per conservarli puri nel tempo”. Questa è l’idea che l’enciclopedia suggerisce e non c’è nessun motivo di ritenere che chi ha composto queste voci abbia voluto confonderci le idee, e tantomeno fare opera di fuorviamento a vantaggio delle teorie razziste. Semplicemente ha conferito una forma nitida a un discorso che appare al senso comune fondato. Questi sono i tempi logici del discorso. Cioè prima c’è la razza e dopo il razzismo, che vuole conservare pure le razze che esistono.

Perché ho cominciato col dire che siamo nella preistoria per quello che riguarda una sufficiente chiarezza concettuale in tema di razzismo? Perché credo che le cose stiano esattamente all’opposto rispetto a questa posizione del problema. Cercherò di mostrare come, se si vuole capire che cos’è il razzismo, occorre rovesciare la sequenza e arrivare a dire che le razze non esistono o che, se esistono, in nessun senso sono – questo è un primo paradosso – rilevanti per il discorso razzista; e che, a sua volta, il discorso razzista opera con “razze” che non hanno nulla a che vedere con le razze eventualmente esistenti. In una parola: lungi dall’essere le razze la materia prima su cui il discorso razzista lavora, al contrario le “razze” con cui il discorso razzista lavora sono prodotte (inventate) dal discorso razzista. Come si vede, rispetto al discorso implicito nella catena concettuale dei due lemmi che leggevo, il discorso va ribaltato di 180 gradi. Insomma, saremmo soddisfatti se, invece di leggere che è razzista chi esalta le pretese qualità superiori di una razza, leggessimo – ma nessuno lo ha mai scritto, tanto meno in un’opera divulgativa —che il razzista professa una teoria che costruisce razze, attribuendo a determinati gruppi umani qualità particolarmente brillanti (o particolarmente indecenti). In realtà, il più delle volte particolarmente indecenti, considerato che il razzista non è tanto colui che si “autorazzizza”, quanto chi “razzizza” un altro per poi confinarlo in una condizione disagevole o per eliminarlo senza tanti problemi (in questo caso l’autorazzizzazione costituisce una premessa implicita).

 INTERPRETAZIONI DEL TERMINE

Che questo conflitto di interpretazioni o di posizioni non attenga ad uno scontro di opinioni lo dimostra il fatto che, in qualche modo, il conflitto sta dentro il medesimo senso comune. Per un verso il senso comune si rispecchia pacificamente in queste due voci dell’enciclopedia. Nessuno è colpito immediatamente dal fatto che in base a questa interpretazione le cose non funzionano. Il senso comune, in generale, si trova abbastanza bene di fronte a questa definizione. Ma, come osserva Gramsci, il senso comune è il “folclore della filosofia”, una sorta di contenitore di frammenti e di pezzi di concezioni del mondo e di visioni filosofiche che hanno provenienze distinte e diverse strutture complessive3. Il senso comune è contraddittorio, è problematico, è il luogo di inconsapevoli conflitti.

Per quanto riguarda il nostro discorso, uno dei conflitti interni al senso comune che impediscono una concettualizzazione coerente del razzismo è testimoniato da un fatto. Per un verso, dicevamo che tenderemmo ad accettare le definizioni della Zanichelli; per l’altro tuttavia usiamo l’idea di razzismo in connessione con fenomeni, con processi, che non hanno nulla a che vedere con l’impostazione che l’enciclopedia dà al problema. Tanto è vero che, per esempio, parliamo di razzismo anche in relazione a vicende come le “pulizie etniche” nella ex-Jugoslavia o in relazione a tipici conflitti nazionali (tra turchi, iracheni e kurdi; tra inglesi e irlandesi; tra israeliani e palestinesi), o, ancora, alle contrapposizioni sorte in seno a singole comunità nel corso della loro nazionalizzazione (o modernizzazione), come nel caso dei nostro paese. Si parla di razzismo a proposito della persecuzione che Turchia e Iraq compiono a danno della minoranza kurda; a proposito del genocidio verificatosi in Rwanda; delle violenze che hanno costellato i rapporti fra il Regno Unito e l’Irlanda e tra la Spagna e il paese basco. Si parla di razzismo nei confronti degli ebrei e certo nessuno se ne stupisce. Si parla di razzismo anti-meridionale nella vicenda italiana: se ne parlò nei primi decenni dei secolo, sulla scia delle polemiche suscitate dalle tesi di Niceforo e Sergi e se ne parla oggi in margine alla difesa aggressiva delle presunte caratteristiche etniche di lombardi e veneti da parte della Lega Nord e della Liga Veneta4.

Qui si pone evidentemente una questione cruciale. Occorre chiedersi se si tratti di un uso metaforico del termine razzismo; o se non si tratti invece di un uso che denota la percezione in tutti questi fenomeni – che, pure, non hanno nulla a che vedere con elementi che l’enciclopedia citata pone a fondamento delle proprie definizione – la percezione, dicevo, di un tema concettuale e di una sequenza logica effettivamente connessi al razzismo. L’enciclopedia dice che esiste la razza quando esistono caratteristiche fisiche trasmissibili; dopo di che il razzismo ci costruisce

sopra la sua mitologia, caricando di valori positivi o negativi questi gruppi umani. Ma in nessuno di questi esempi (e tanti altri se ne potrebbero fare) sono caratteri fisici trasmissibili di generazione in generazione ad indurre tutti noi a parlare in questi altri casi di razzismo, di conflitti tra razze.

Come si vede, qui c’è un problema. Non credo che sarebbe giusto sostenere che quando parliamo di razzismo anti-irlandese, antimeridionale, antisemita, impieghiamo l’idea di razza come una semplice metafora. Penso invece che questo modo di usare l’idea di razzismo, proprio dal punto di vista scientifico, veicoli molta più verità che non il primo modo di ragionare, che sembrava molto più prudente e concreto. Questo perché? Perché in realtà il razzismo non presuppone mai l’esistenza di una “razza”. Non è mai un discorso che prende avvio dall’esistenza di razze diverse. Sto facendo delle affermazioni volutamente estreme. Naturalmente se si pensa al razzismo tra bianchi e neri negli Stati Uniti o in Sudafrica, casi tipici delle relazioni razziali violente, si potrebbe dire che ci vuole del coraggio per sostenere che li il razzismo non parta dall’esistenza delle “razze”. Al contrario, sostengo che nemmeno in quel caso il razzismo parte dall’esistenza di caratteri fisici diversi. Anticipo qui un argomento sul quale tornerò, perché mi preme essere comprensibile: la mia idea è che in quei casi ci sia solo una coincidenza tra la presenza effettiva di gruppi umani caratterizzati da fenotipi diversi e le ragioni che stanno alla base del razzismo e che – come vedremo subito- non hanno nulla a che fare con l’esistenza di specifici caratteri fisici. Una coincidenza. Ma tralasciamo per il momento questi casi tutto sommato particolari, visto che le cosiddette società multirazziali sono ancora una minoranza.

Se consideriamo le società “monorazziali” – per esempio la maggioranza delle società europee, che solo negli ultimi anni si avviano a diventare società “multirazziali” (il caso francese è un caso a sé, per la vicenda di un colonialismo assimilatorio relativamente eccezionale) è un fatto che queste società hanno conosciuto e conoscono il razzismo. Che cosa penseremmo di chi negasse che l’Europa è stata (ed è) una culla del razzismo? Ma come potremmo giustificare la nostra protesta se muovessimo dalle definizioni contenute nella nostra enciclopedia? Se ci accontentassimo, per prudenza o per una malintesa concretezza, dell’impostazione di quella enciclopedia, dovremmo desumerne che le violenze che in questo secolo hanno visto contrapporsi gruppi umani diversi non sono razziste: o, peggio, ci ritroveremmo m una imbarazzante compagnia con i razzisti, perché – per parlare di razzismo – dovremmo immaginare che li qualche carattere somatico c’entri. Se razzismo c’è stato e dovesse avere ragione l’enciclopedia, dovremmo dire che alla base di persecuzioni e genocidi c’è qualche carattere fisico ereditario. Credo che nessuno di noi abbia intenzione di imbarcarsi nella impresa difficile e per fortuna votata al fallimento degli antropologi fisici che dovevano dimostrare che gli ebrei o gli zingari o gli omosessuali sono fatti diversamente dagli altri: hanno il naso in un certo modo, il cranio di una certa forma, il sangue diversamente composto… poi si scopre che, per fare solo un esempio, PauI Newman ha origini ebraiche e allora si capisce che qualcosa non va in questo discorso!

Si tratta di fare i conti in maniera seria con la storia europea, elaborando concetti capaci di coprire l’intera fenomenologia del processo storico. Insisto su questo riferimento storico. Non sono d’accordo con Foucault che limita questo discorso al Novecento o al tardo Ottocento, né con Mosse che parte dal XVIII secolo; e al tempo stesso dissento da quanti fanno la storia del “razzismo perenne”. La dimostrazione risiederebbe nel fatto che sempre la descrizione del popolo diverso si è avvalsa di stereotipi, della caricatura, della costruzione di immagini stilizzate. Così si perde di vista la dinamica funzionale del discorso razziale, la costruzione di stereotipi naturalistici connessi alla legittimazione di una collocazione sociale: più precisamente, alla giustificazione di pratiche o argomentazioni che entrano in conflitto con i principi universalistici fondativi dei moderno. In questo senso il razzismo è tipico della modernità, una sua patologia specifica, se si vuoi dire così.

Cosa cambia nelle società europee attorno al Cinque-Seicento e soprattutto nei secoli successivi? La modernità ha una caratteristica: cambia il ritmo dei mutamenti, cambia la velocità con cui si trasformano le identità e le funzioni sociali, la collocazione nella società dei vari gruppi che la compongono. Da allora la società è sempre più fluida, attraversata da mutamenti sempre più rapidi. L’ipotesi che varrebbe la pena di verificare è se il discorso razzista non si sviluppi proprio perché produttore di identità stabili nel tempo, di stereotipi che, in quanto lavorano con dementi di presunta naturalità, sono fissi e costanti: in definitiva, se non sia il caso di ipotizzare che il discorso razzista nasce nella modernità proprio come reazione al mutamento. Quando ci si accorge che nella società moderna tutto rischia di cambiare, poiché la mobilità sociale rischia di confondere le carte in maniera inquietante, e quello che mi stava ieri sotto rischia di starmi di sopra domani (e magari già questa sera a mio pari), allora il discorso razzista produce ragioni per cui questa mobilità non è possibile. Non si può cambiare di collocazione perché si è diversi per natura.

Viene in mente Montesquieu, quando rimprovera una eccessiva radicalità alla tradizione storica degli aristocratici. Che cosa dicevano questi ultimi? Sostenevano che quella parte – borghese – della società francese che veniva reclamando la nobilitazione non poteva diventare nobile al pari della vecchia aristocrazia, perché discendeva da un’altra razza. Per sostenere questo argomento si inventarono – in assenza totale di caratteri fisici perché erano tutti francesi – che i non nobili, i borghesi erano discendenti dei gallo-romani mentre i nobili erano discendenti dei germani e dei franchi. Questa mi pare la più inconfutabile dimostrazione che il discorso razzista non ha alcun bisogno di caratteri fisici, ma crea identità razziali per bloccare il mutamento della società.

Dunque si tratta di fare i conti con la nostra storia moderna e di elaborare una interpretazione del razzismo in grado di rendere conto dell’intera gamma di processi di inferiorizzazione che la modernità presenta. Giacché se i concetti ci costringono a continui rappezzamenti successivi, allora vuoi dire che abbiamo sbagliato chiave di interpretazione. Sono convinto che il discorso che sto facendo e che, a dispetto della complessità della faccenda, spero non sia troppo arruffato e confuso, copra l’intera gamma dei fenomeni. Lo ripeto: dobbiamo rovesciare di 180 gradi la prospettiva interpretativa suggerita dalla catena concettuale dei due lemmi dai quali siamo partiti. Non è vero che esiste la razza e poi c’è il razzismo: molto più semplicemente, le “razze” esistono in quanto c’è il discorso razzista. Le “razze” di cui il razzista parla sono interamente invenzioni, costruzioni del discorso razzista. Questa è la mia tesi, ed evidentemente non solo la mia, se è vero che per troncare ogni discussione con chi gli rinfacciava le sue amicizie ebraiche un tipo come Karl Lueger, sindaco antisemita di Vienna a cavallo tra il secolo scorso e il nostro, usava replicare che era lui a decidere chi fosse o non fosse ebreo5. In base a questa tesi è possibile definire la razza di cui parla il razzista, la razza di cui si tratta nelle teorie razziste nei termini di una costruzione simbolica: una invenzione utile (vedremo presto in che senso) nel contesto della lotta ideologica e politica o del dibattito culturale.

 IL CASO EUROPEO: UN “RAZZISMO SENZA RAZZE”

Tutto ciò sembrerà plausibile in relazione al caso europeo, a proposito del quale si suole parlare infatti di razzismo senza razze. Sembrerà molto meno calzante nei riguardi delle società che definiamo multirazziali, nelle quali, come si diceva in apertura, il senso comune si ritrova a proprio agio nell’attribuire al razzista un “cattivo uso” della differenza razziale data. Se consideriamo queste società, formate da gruppi umani fenotipicamente diversi, sembra assurdo, a prima vista, affermare che il razzismo prescinde da tali differenze, ne è indipendente: parrebbe evidente che, almeno in questo caso, il razzismo sorga sulla base delle differenze naturali, come loro perversa valorizzazione. D’altra parte, il fatto che le relazioni tra gruppi fenotipicamente diversi – tra bianchi e neri o tra bianchi e pellerossa – costituiscono il caso paradigmatico di razzismo assolverebbe la impostazione del problema suggerita dalla nostra enciclopedia. Al contrario, anche in questo caso a me pare che tale impostazione rovesci la realtà, istituendo un rapporto tra cause ed effetti che Marx definirebbe feticistico.

Qual è la differenza quando invece di essere in gioco un prete, un calzolaio, un sapiente, un politico sono in gioco un bianco, un nero, un rosso un giallo? In che senso le cose sono – come sembrerebbe – veramente diverse? Sostengo che la sola differenza sta in ciò, che nel secondo caso (quando sono coinvolti gruppi umani fenotipicamente diversi) la costruzione di stereotipi caratterizzati da talune qualità psicologiche, culturali, morali ecc. (cioè la costruzione delle “razze” di cui parla il razzista) sfrutta (nel senso che segue gli stessi confini che separano i diversi gruppi) la esistenza di differenze fisiche visibili. Sfrutta queste differenze approfittando di circostanze (vedremo presto di quale genere) che dobbiamo avere la spregiudicatezza e il coraggio intellettuale di definire casuali (accidentalmente date): non essere razzisti implica insomma comprendere che la enorme sovrastruttura ideologica costruita sui colori della pelle (l’idea, per fare solo l’esempio più ovvio, che nella pelle nera si rifletta una maledizione) sia secondaria ad altre ragioni che di per sé non hanno bisogno della pelle o di altri caratteri fisici e che di tali caratteri fisici si limitano a sfruttare l’eventuale presenza. In questo senso è un caso che il razzismo contro gli schiavi sia anche un razzismo contro i neri. E in questo senso, mentre tutti i non-razzisti sanno bene che – a dispetto di Voltaire – non è vero che si sia schiavi perché neri, bisogna anche sapere dire con chiarezza che si è neri (cioè: si è visti come neri, individuati in quanto neri) perché si è schiavi. Dobbiamo stare molto attenti a non scambiare ciò che viene prima da ciò che viene dopo, perché altrimenti facciamo un discorso squisitamente razzista. A non incorrere in questo errore ci aiutano per fortuna anche i protagonisti della storia del razzismo. Non è una boutade quella di Malcolm X quando diceva di non sapere se si è poveri perché neri o neri perché poveri. La stesso connessione costitutiva tra posizione sociale e appartenenza a una razza è affermata a chiare lettere in una sentenza emessa da una corte della Carolina del Sud nel 1835, dove si afferma testualmente che la “reputazione” costituisce il solo “criterio” per “definire negro un individuo”6.

Il razzista bianco dirà che se quell’individuo è nero, alla sua pelle nera si accompagnano determinate qualità morali: per il razzista non c’è nessuno scarto tra il suo essere fisico e il suo essere morale. Dunque l’unica critica al discorso razzista è stabilire una netta divaricazione tra la qualità morale e la qualità fisica, negare che esista alcun nesso. Di conseguenza, se noi neghiamo l’esistenza di questo nesso, dobbiamo rinunciare a istituire alcuna differenza tra la stereotipizzazione del nero e la stereotipizzazione del calzolaio, tra la stereotipizzazione dello zingaro e la stereotipizzazione del giallo o del pellerossa. Non ci sono vie di mezzo: o i caratteri fisici sono presenti in maniera assolutamente accidentale nella definizione di uno stereotipo, allora diremo che prima c’è lo stereotipo e poi, là dove ci sono, si risale ai caratteri fisici, mentre se non ci sono basta una stella gialla. Non possiamo dire che nei confronti del nero il carattere fisico è tra le fonti del razzismo, altrimenti ci contraddiciamo e facciamo involontariamente un discorso razzista, che regala al razzista anche un elemento di oggettività. La logica del discorso razzista non ha alcun bisogno dell’elemento fisico. Se ne serve, perché è chiaro che è utile avere dei contrassegni nel momento in cui si vogliono produrre effetti materiali, quali la segregazione, la discriminazione, la violenza. Se l’oggetto di tali processi non ha la pelle nera o il suo equivalente fisico? Non importa: la pelle gliela invento e gliela cucio addosso. Creo dei distintivi che possono essere la lingua, una stella gialla, il lavoro, il credo politico. Il carattere di questi contrassegni non ha alcuna rilevanza ai fini della operatività del dispositivo. Il quale ha un unico essenziale elemento costitutivo: la naturalizzazione delle identità (vere o presunte), cioè il fatto che talune caratteristiche (reali o immaginarie) assumono dentro il discorso razzista la qualità di entità naturali. Divengono caratteri intimamente connessi al soggetto nella sua ontologia, radicati, trasmissibili: per cui tutti coloro i quali sono portatori di quel carattere, sono irrimediabilmente vincolati a quella funzione, a quella azione e a quella discriminazione.

COME SI COSTRUISCE LA “RAZZA” CHE NON C E?

Giunti a questo punto e per rendere comprensibile la logica di questo discorso, la domanda alla quale è necessario rispondere proprio per rendere sensata questa ipotesi è la seguente: ammesso che la razza di cui parla il razzista sia inventata, costruita, prodotta sul terreno simbolico dal discorso razzista, quali sono le materie prime con cui viene costruita; il che subito comporta un secondo interrogativo: a quale istanza, a quale interesse obbedisce questa impresa simbolica? Se il razzista si dà pena di costruire questa rappresentazione simbolica, se costruisce la razza che non c’è e che incomincia a vivere a partire dal suo discorso, come la costruisce e perché? Se non sono i caratteri fisici, se non è la

natura, se non sono quegli elementi trasmessi di generazione in generazione come l’ipotesi di partenza suggeriva, allora di che cosa si serve il razzista, con quali mattoni lavora e perché con quelli piuttosto che con altri?

C’è una ipotesi (che a me pare l’unica pertinente) in grado di coprire l’intera fenomenologia dei processi, di spiegare perché tutti quei conflitti ai quali ho fatto riferimento si strutturino sulla base di argomenti di tipo razzista (i baschi, i kurdi, gli ebrei, i meridionali e – perché no? – gli omosessuali, le donne, gli zingari, i sovversivi, visto che c’è anche questo). L’ipotesi è che l’unico vero denominatore comune di tutti i discorsi razzisti (anche di quelli in cui in apparenza sono in questione razze esistenti) è che la fonte costitutiva del discorso razzista siano le dinamiche storico-sociali; e che la scelta della razza dipenda dal fatto che essa consente di ancorare dinamiche sociali e caratteristiche dipendenti dai processi storici a un terreno “naturale” e quindi assolutamente immutabile. L’idea è, insomma, che il discorso razzista consente di tradurre in termini naturalistici (rendendole immutabili) le qualità dei soggetti che esso coinvolge e che in realtà hanno a che fare con i processi storico-sociali (dove quest’ultimo concetto non deve essere declinato in termini riduttivamente economicistici: non è in questione esclusivamente la funzione produttiva dei soggetti, perché altrimenti non spiegheremmo, per esempio, la razzizzazione del nemico politico). Dobbiamo quindi fare riferimento alla funzione che il soggetto (o il gruppo) svolge dentro la società e alla sua collocazione rispetto all’intera articolazione del conflitto sociale-politico. Muovendoci su questo terreno siamo in grado di coprire in maniera pertinente l’intera fenomenologia del razzismo.

Cominciamo proprio dal razzismo classico, quello che sorge storicamente nel quadro delle relazioni tra bianchi e neri. In molte società vi è stata, per ragioni storiche evidenti, una tragica coincidenza tra caratteri fisici e caratteri sociali. Questo è il punto difficile da individuare e da distinguere. Ad esempio nelle società schiaviste moderne gli schiavi sono stati il più delle volte altri popoli con altre caratteristiche fisiche. E allora il razzista ha avuto buon gioco a dire che questi sono schiavi in quanto sono neri. Per questo, se vogliamo capire in fondo il discorso dobbiamo prendere sul serio quella battuta che facevo prima. Gli schiavi sono neri in quanto sono schiavi. E’ l’essere impiegato come schiavo che ha costruito, nel corso del tempo, l’immagine del nero. Se i neri non fossero stati schiavi non si sarebbe costruito un discorso sul nero: ad esempio, non si sarebbe costruita quell’antropologia che ha fatto del nero l’essere inferiore che sappiamo7. Tanto è vero che prima della schiavitù, quelle popolazioni non erano neppure viste come nere: abbiamo una cospicua serie di testimonianze dell’incontro tra l’europeo bianco e gli africani ove il colore della pelle non è citato mai. Quasi non se ne accorgessero nemmeno, così come nessuno di noi oggi qui in questa sala penserebbe di dividerci tra biondi e bruni.

Non è che non vediamo che alcuni di noi sono biondi ed altri sono bruni, altri calvi e altri castani: è che nessuna tra queste distinzioni corrisponde ai diversi ruoli svolti dai membri di questa micro-comunità. Ma ove ci trovassimo distinti in base alle funzioni che svolgiamo, allora potremmo trovare utile (allo scopo, per es., di confermare questa distinzione) sostenere che le diverse componenti del nostro gruppo presentano diverse caratteristiche morali (e qui sorge il razzismo); dopodiché avremmo la preoccupazione di rendere visibili queste caratteristiche, appoggiandoci sui caratteri fisici esistenti (se, per caso, i conti dovessero tornare, perché i biondi svolgono effettivamente una funzione diversa da quella svolta dai bruni), oppure inventandoceli ad hoc.

 IL SESSISMO

Ora consideriamo un caso che con grande difficoltà si suole inserire nel quadro analitico del discorso sui razzismo. Poc’anzi, per dimostrare come l’ipotesi della trasmissione dei caratteri fisici non funzioni, ho fatto l’esempio di alcuni conflitti interetnici, come il conflitto israelo-palestinese. Dicevo: il senso comune ha ragione a suggerire che li c’è una dinamica di tipo razzista. Ha ragione, ma naturalmente non ce lo si spiega se si parte dai caratteri fisici. Lì c’è un problema che ha a che fare col conflitto sociale e con il conflitto bellico – che con il conflitto sociale ha sempre una stretta connessione. Il punto è che spesso la dinamica di tipo razzista interviene costitutivamente nella costruzione di identità e di stereotipi che non hanno nulla a che vedere nemmeno col conflitto “etnico”: per esempio il razzismo nei confronti delle donne. Che cosa è la costruzione dello stereotipo sessista con il

quale spesso abbiamo a che fare e che consideriamo frequentemente, e secondo me giustamente, alla stregua di un razzismo? Che cosa si è detto tradizionalmente della donna? Che la donna ha una capacità intellettiva inferiore. Questo non si dice soltanto nei classici della filosofia. È noto che Aristotele tripartisce l’insieme del genere umano. Al sommo della scala ci sono gli individui liberi che sono gli adulti maschi della stirpe. All’ultimo gradino troviamo gli schiavi per natura, che non si sa bene se siano uomini o meno: sono uomini-non-uomini che hanno una capacità debole di volere, una capacità indebolita di elaborare volontà, per cui non sono autonomi nella definizione delle finalità e quindi sono per natura destinati a eseguire, a funzioni di tipo esecutivo. In mezzo c’è una fascia della popolazione che è costituita dai bambini e dalle donne, dove naturalmente i bambini maschi sono destinati a evolvere quindi ad emanciparsi da questa condizione di inferiorità, mentre le bambine no, perché comunque diventano donne e rimangono nella medesima fascia: le donne appunto in questa fascia subalterna stanno e rimangono perché sono dotate di un’anima inferiore rispetto a quella dei maschi. Superiore rispetto a quella degli schiavi ed inferiore rispetto a quella dei maschi. Questo è un modello potentissimo, che sfida i secoli e che non ha, secondo me, soltanto a che vedere con i cascami arcaici di un senso comune reazionario. E in fondo qualche cosa che ha abitato l’antropologia e la psicologia sociale: non voglio dire che questo tuttora continua, ma certamente le ha abitate fino a tutta la prima metà di questo secolo.

Dunque il sessismo: ma pensiamo anche alla razzizzazione delle malattie e della devianza in genere, pensiamo alla razzizzazione degli alcolisti (molti ancora oggi sostengono che l’alcolismo è ereditario), pensiamo alla razzizzazione dell’omosessualità. Ci sono molte ipotesi secondo cui c’è la famosa storia del cromosoma in più o in meno, onde la ricerca affannosa di un radicamento fisico e biologico di differenze che sono evidentemente di ordine culturale, psicologico, che attengono alla libera scelta degli individui in massima parte, o a dinamiche di tipo sociale per ciò che attiene alla devianza e a quella particolare patologia sociale che riguarda le tossicodipendenze.

Come ce la caviamo quando abbiamo a che fare con la costruzione di stereotipi in tutto e per tutto identici al razzismo? “Lo zingaro è ladro”. Questo noi lo sentiamo dire sempre, e non si tratta ovviamente di giudizi relativi a singoli individui. Non ci accontentiamo assolutamente di dire che quello zingaro è un ladro, perché questo non ci serve a niente. Anche Pinco Pallino italianissimo può essere un ladro, ma certo noi non arriviamo a dire che l’italiano è ladro. L’argomento diventa forte, produttivo di spiegazioni, perché implica che lo zingaro è ladro in quanto zingaro. Tutti gli zingari sono ladri in quanto zingari sono destinati fin dalla nascita ad essere ladri. Anche qui – badiamo – abbiamo a che fare con la trasmissione ereditaria: ma il punto è che – al contrario di quello che il senso comune crede – il razzismo crea una trasmissione ereditaria di caratteristiche, positive o il più delle volte negative, attribuite a un gruppo.

Vale la pena, a questo riguardo, di soffermarsi brevemente su un piccolo documento, un breve passo della “Prefazione generale” della Comédie humaine di Balzac” una citazione di seconda mano (più precisamente di terza), ma ogni tanto fare delle citazioni di seconda mano è ancora più prestigioso perché la mediazione è altrettanto importante della fonte primaria. In questo caso la fonte sono ancora i Quaderni del carcere. Gramsci era un ammiratore di Balzac, così come lo stesso Marx lo era. Entrambi riconoscevano a Balzac una straordinaria sensibilità sociologica e in particolare il merito di avere compreso (questo e, nella lettura che Marx e Gramsci ne forniscono, il senso della Comédie humaine) la potenza costitutiva che l’ambiente sociale ha nei confronti della personalità.

Tuttavia, dice Gramsci, Balzac è anche un sociologo “positivista”, e proprio la pagina che egli cita e che sto per leggere gli pare dimostrano. Che cosa dice dunque Balzac in questa pagina di straordinario interesse, che lo stesso Gramsci cita da un articolo di Paul Bourget, nel quale si tentava di enudeare la teoria politica e sociale che informava la Comédie? Leggiamo:

l’animale è un principio che prende la propria forma esteriore, o meglio le differenze della propria forma, dall’ambiente in cui è chiamato a svilupparsi. Le specie zoologiche risultano da queste differenze. Conquistato da questo sistema, io vedo che la società rassomiglia alla natura.

 Ecco il punto delicato e cruciale, dove Gramsci coglie il tipico slittamento social-darwinistico: esiste la natura, luogo delle diverse specie che lottano per la sopravvivenza; sull’esempio della natura cerchiamo di capire che cosa succede nella società. Balzac prosegue:

Non fa forse essa, natura, dell’uomo seguendo nei diversi ambienti nei quali la sua azione, della natura, si dispiega, non crea altrettanti uomini diversi quante sono le diverse varietà zoologiche? Sono sempre dunque esistite ed esisteranno sempre specie sociali diverse come vi sono specie zoologiche diverse. Le differenze tra un soldato, un operaio, un amministratore, un ozioso [e Gramsci qui mette due punti esclamativi], un sapiente, un uomo di Stato, un commerciante, un marinaio, un poeta, un povero [nuovi punti esclamativi di Gramsci], un prete, sono altrettanto rilevanti quanto quelli che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo ed altri animali.

 Questo schema di argomentazione è certo metaforico, ma proprio per questo, badate, costituisce uno schema potentissimo, che ha orientato per molto tempo il pensiero sociologico e politico8. Esso conferisce al soggetto sociale, a dispetto della sua evidente nondiversità razziale, una carattenizzazione naturalistica; opera, per dir così, una radicalizzazione dell’identità sociale, facendo di questa un carattere non meno rilevante e trasmissibile di generazione in generazione di quella che distingue i gruppi umani fenotipicamente distinti. In conclusione, possiamo dire che il social-darwinismo è la “verità” del razzismo (e dice la verità sul suo conto), nel senso che ne rivela i meccanismi costitutivi, il passaggio dall’ordine sociale e dal conflitto politico-storico alla (pretesa) natura.

 PER LA CRITICA DELL’OTTICA RAZZISTA

Per concludere. A me sembra evidente: zingari, devianti, poveri, sovversivi, ecc. per un verso; donne, servi o schiavi per un altro; nazionalisti irlandesi o baschi, palestinesi o kurdi, ecc. per un altro ancora; e infine gli ebrei: tutti questi soggetti sono trasformati in razze (“razzizzati”) per ragioni che attengono al conflitto sociale-politico: i primi in quanto pericolosi; i secondi perché subordinati; i terzi perché nemici; e gli ebrei per tutte queste ragioni insieme e per altre ancora (ad esempio perché si pretende eccellano nelle attività finanziarie e intellettuali, e li si accusa di servirsi di tale presunto talento per i propri disegni di potere): ed è evidente che proprio questa funzione di jolly svolta dagli ebrei fa dell’antisemitismo il paradigma del razzismo contemporaneo, sempre in agguato.

Rimane da fare, a modo di sommario finale, un’ultima considerazione. Quando si sostiene che è corretto parlare di razzismo in relazione alla (più o meno esplicitata) stereotipizzazione inferiorizzante di gruppi umani che non hanno nulla di fisicamente identificante si incontra una diffidenza sintetizzabile nel seguente duplice interrogativo: espandendo in maniera indiscriminata il concetto non si rischia di “fare confusione” e persino di rendere in qualche modo meno efficace la lotta contro il razzismo vero, quello che si abbatte sulle razze “indiscutibilmente esistenti”? Ebbene, a me pare che questo interrogativo, a prima vista molto ragionevole e comunque dettato da una preoccupazione condivisibile, implichi un modo di pensare sbagliato (si immagina che il razzismo sarebbe sorto, in un primo momento, in relazione alla persecuzione di determinati soggetti ii le razze “indiscutibilmente esistenti”, appunto – e che i suoi dispositivi discorsivi siano stati estesi in un secondo momento ad altri soggetti non “razzialmente distinti”) e generi un effetto paradossale e anche imbarazzante.

Quando si ragiona così, non solo ci si impedisce di individuare le dinamiche razziste che generate in tutta l’ampiezza del terreno sociale, ma – a guardar bene – si nega a tante vittime del razzismo il diritto di difendersene. All’irlandese e allo zingaro, ad esempio, si dirà che possono avere tutte le loro buone ragioni ma, per favore, si rassegnino all’evidenza che il loro problema èdi politico o religioso o culturale e quindi non implica dinamiche di tipo razzista. E qui sta il paradosso: che si pretende che i soggetti che affermano di essere oggetto di discriminazione razzista esibiscano proprio quei famosi caratteri trasmissibili! Ovvero, si fa un esame razzista in nome del conflitto contro il razzismo, visto che per essere considerati vittime del vero razzismo bisogna essere… razze, soggetti classificabili in termini razzisti! In altri termini, sfugge che per contrastare una ideologia è necessario ricostruirne la logica, individuare il punto di vista di chi la professa; e che a questo scopo non basta contrapporre i propri concetti (che si ritengono ben fondati e immuni da vizi ideologici) al vocabolario del razzista, nel quale si riflette il suo perverso modo di vedere. La critica del razzismo deve fare i conti con il concetto razzista di razza. Solo dopo averne smontato le pretese può impiegare il concetto corretto, scevro da implicazioni razziste. Un modo diverso di procedere, dettato dal pur comprensibile rifiuto di maneggiare materiali ideologici così ripugnanti, dalla paura di venirne contaminati, sarebbe precipitoso e impedirebbe di colpire il bersaglio.

Per quello che concerne il timore che la prospettiva analitica qui suggerita possa ingenerare confusione espandendo eccessivamente l’area semantica del concetto di razzismo, pare a me che tale preoccupazione non sia fondata e che parta da un presupposto erroneo. Affermare, come ho fatto, che il razzismo insorge ogni qual volta si costruisca uno stereotipo riconducendo alla natura del soggetto in causa i suoi presunti caratteri identificanti non significa ampliare a dismisura l’area di riferimenti del problema. Significa, al contrario, stabilire con chiarezza i confini dell’area problematica. Si può, evidentemente non concordare con questa impostazione. Ma una critica non può assumere nulla come ovvio. In base a quale criterio si afferma che questa interpretazione del problema condurrebbe a una dilatazione eccessiva del termine? Evidentemente si ritiene di sapere qua! è la misura giusta e quindi quale sia il vero termine di riferimento del problema: qual è? Per parte mia, mi limito ad osservare che l’unica confutazione della prospettiva analitica che ho cercato di argomentare sarebbe la individuazione di un caso in cui non si dia razzismo pur in presenza della costruzione di uno stereotipo naturalistico inferiorizzante.

NOTE

1. L. VYGOTSKY, Pensiero e linguaggio (1934), Laterza, Roma-Bari 1990, p. 370.

2. Enciclopedia Zanichelli, Zanichelli, Bologna 1996.

3. A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi 1975, p. 2271 (q. 24, S 4).

4. Cfr. al riguardo V. Teti, La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, Roma 1993; A. BURGIO, Note sul razzismo della Lega nord, in A. BONOMI – P.P. POGGIO (a cura di), Ethnos e Demos. Dal leghismo al neopopulismo, Mirnesis, Milano 1996, pp. 215-26.‘Cfr. A. BURGIO, L’invenzione delle razze. Studi su razzismo e revisionismo storico, manifestolibri, Roma 1998, p. 22.‘Ivi, p. 140; per il riferimento a Malcolm X, cfr. ivi, p. 21.6In questa direzione sembra muoversi una osservazione di D. HARVEY (La cnn della modernità [1290], il Saggiatore, Milano 1993, p. 133) che sottolinea come il razzismo sorga dalla “combinazione dello sfruttamento di classe” con le caratteristiche di “coloro (donne, neri, popoli colonizzati, minoranze di ogni tipo) che possono essere prontamente concettualizzati come diversi”.

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