La valutazione come controllo di qualità nella scuola-azienda

di Luca Castrignanò

Il tema della valutazione costituisce un momento centrale della riflessione pedagogica che ha accompagnato i processi di riforma del sistema scolastico.

Tale centralità non è venuta meno con il ritiro della riforma dei cicli, perché rimane ancorata all’idea dell’autonomia scolastica, vero pilastro della ristrutturazione in corso. La riforma Moratti infatti, così come quella proposta dal governo precedente, parte dal presupposto indiscutibile dell’autonomia scolastica, di quel processo che ha trasformato il sistema pubblico statale in una rete di istituti indipendenti e concorrenziali gli uni con gli altri, che funzionano secondo un modello aziendale (è evidente tuttavia che la sbandierata sovranità decisionale di tali istituti si arresta di fronte a ciò che tocca il bilancio dello Stato come abbiamo avuto modo di constatare in queste settimane rispetto alla determinazione degli organici).Il tema della valutazione attraversa la storia della pedagogia e non nasce certo dai progetti di riforma menzionati, tuttavia uno sguardo critico non può non rilevare quanto in questi anni anche le riflessioni più interessanti sul tema siano sussunte entro la cornice ideologica del nuovo modello di scuola. Nel convegno CESP 2000 abbiamo cercato di approfondire il significato del momento valutativo nella didattica modulare1, ora vorrei invece sottolineare gli aspetti di sistema della valutazione, legati alla funzione di indicatore del grado di “qualità” raggiunto dal singolo istituto e, a livello macro, dell’intero sistema scolastico.Nelle lotte degli anni ’90 contro l’ “autonomia scolastica” abbiamo ripetutamente sottolineato lo stravolgimento che essa avrebbe prodotto nei fondamenti del sistema scolastico: da istituzione fondamentale dello stato democratico volta ad assicurare a ciascuno un proprio percorso di formazione alla cittadinanza, a semplice servizio offerto sul mercato a studenti-utenti. Che tale mercato fosse pubblico o privato era, in fondo, una questione secondaria (certo, non per questo irrilevante), e proprio per questo la legge sulla parità è potuta procedere in modo parallelo e tutto sommato coerente con l’attuazione dell’autonomia scolastica. Il punto essenziale ci sembrava piuttosto quello di ripensare l’istruzione come una merce, erogata a utenti-clienti al pari degli altri servizi (trasporti, mense, ecc.). La scuola, ente erogatore, doveva quindi essere sottoposta ad un controllo di qualità che ne rilevasse il grado di efficienza ed efficacia come avviene nelle altre aziende. Da questo punto di vista la scuola diviene quindi luogo di produzione della merce istruzione la cui efficacia deve essere misurata in termini di quantità di apprendimento prodotto.Tuttavia l’apprendimento è una materia che non sembra prestarsi bene alla misurabilità. L’ostinazione con la quale, anche nei dipartimenti universitari, si è cercato di perseguire l’obiettivo di una quantificazione oggettiva dei risultati scolastici attraverso sistemi sempre più sofisticati di monitoraggio e verifica ci appare a questo punto in una luce diversa. Non si tratta infatti solamente di una pretesa assurda e astratta che, in nome di una trasparenza totale del processo di apprendimento, finisce per trascurarne proprio gli aspetti più qualificanti (quali ad esempio le capacità comunicative, creative e critiche), come giustamente è stato più volte rilevato. Non si tratta quindi solo di un modello vuoto e artificioso lontano dalla pratica didattica quotidiana e fonte di oppressivi carichi di lavoro burocratico per gli insegnanti, ma di un obiettivo ideologico di importanza fondamentale per accreditare un modello politico e organizzativo diverso del sistema scolastico, la cui efficacia è misurata in quantità di apprendimenti-competenze certificati e la cui efficienza dipende dalla capacità di risparmiare sui costi di produzione di tali risultati.Ma quali sono questi risultati? Quali sono le competenze che la scuola azienda deve produrre e sulle quali si misura la sua efficacia?

Qui ci troviamo nello snodo centrale che unisce la legge sull’Autonomia scolastica, la riforma-Berlinguer e la riforma-Moratti: è il mercato, la domanda delle aziende rilevabile sul territorio, che determina la scansione del curricolo2. La scuola produce competenze vendibili sul mercato del lavoro3. Ciò, è importante sottolinearlo, avviene nella forma della differenziazione: bisogna rispettare le peculiarità e le aspettative del singolo. Il modello modulare vanta tra i suoi tratti distintivi quello di allargare le opportunità formative assicurando a ciascuno un percorso individualizzato. Gli importanti contributi teorici che portano a valorizzare la diversità degli stili di apprendimento propri di ciascuna persona, così come le esperienze di didattica individualizzata sperimentate per valorizzare le capacità degli alunni in situazione di handicap, vengono strumentalmente richiamate e stravolte nella proposta di un modello di differenziazione che abbandona l’orizzonte dell’integrazione e del confronto tra le diversità, della scuola di tutti e di ciascuno, per aprire una deriva individualistica fonte di nuove discriminazioni e ghettizzazioni: a ciascuno, insomma, le competenze che si merita.La riproposizione di un modello di differenziazione classista, che abbandona l’idea della scuola come spazio pubblico in cui si confrontano le differenze individuali, si presenta nella veste di un sistema che garantisce la libertà individuale: la scuola come servizio deve orientarsi alle aspettative del cliente4. Non si tratterebbe più quindi (ma fino a che punto?) della vecchia rigida differenziazione della società disciplinare, ma questa libertà di scelta dell’utenza è solo libertà di fruizione delle chances offerte dal mercato, libertà di consumo, che presuppone e produce isolamento e cinico individualismo cancellando lo spazio comune. La libertà a cui aspiriamo non ha nulla a che fare con questa, è libertà di partecipazione, di confronto e costruzione comune, anche conflittuale, qualcosa insomma che può esistere solo in uno spazio ancora abitato, in una collettività plurale, ciò che intendiamo con il termine “pubblico”.

Questo spazio pubblico, per quanto riguarda la scuola, è stato invaso e occupato dalle scuole autonome aziendalizzate, nonostante la resistenza, ancora vivace, di una parte combattiva dei lavoratori e degli studenti. Così anche la libertà di insegnamento, pilastro costituzionale del sistema italiano, è venuta perdendo sempre più di significato. L’Autonomia scolastica prevede che le scuole definiscano il profilo in uscita, ossia il curricolo di competenze, che offrono in concorrenza a quello degli altri istituti, e, una volta definito questo target (processo a cui gli insegnanti sono tenuti a partecipare ma di cui non possono mettere in discussione i presupposti) ogni lavoratore deve contribuire al suo perseguimento. Gli spazi di libertà di insegnamento vengono così ristretti nell’ambito della fedeltà all’azienda-scuola di appartenenza. Prioritario è sposare lo stile di lavoro della propria scuola e, solo a questo patto, è possibile e anzi doveroso fare ricorso a tutte le proprie risorse professionali, culturali e umane, per raggiungere nel modo più produttivo gli obiettivi prefissati. Questo è davvero un passaggio chiave dell’autonomia: la supposta libertà del cliente giocata contro quella del lavoratore, lo slittamento del senso di appartenenza ad un sistema pubblico, che accomuna insegnanti e studenti di ogni scuola, a quello di appartenenza alla propria scuola e al suo stile di produzione.

La definizione degli obiettivi-competenze da produrre dipende dal monitoraggio della domanda presente nel territorio5, dipende quindi da esigenze esterne ed estranee alla scuola pubblica, per gli insegnanti la libertà residuale e vigilata rimarrebbe quella di raggiungere tali obiettivi come meglio credono (nel rispetto però delle linee guida metodologiche adottate nel Piano dell’offerta formativa).

Insieme agli obiettivi il sistema-azienda deve programmare le modalità di controllo del processo. Il momento della valutazione si sposta dalla misurazione delle competenze acquisite dagli alunni alla verifica dell’efficacia e dell’efficienza del servizio. Il successo formativo, il livello di gradimento dei clienti-famiglie, lo scambio con realtà esterne alla scuola, diventano indicatori della qualità del sistema, certificabile anche ricorrendo ai modelli esistenti di gestione delle imprese private.

Per poter valutare il sistema scolastico vengono dunque definiti alcuni indicatori che consentirebbero di monitorare nel tempo una determinata situazione e di istituire confronti con altre situazioni analoghe. I risultati a livello di classe vengono assunti nel loro valore medio e messi a confronto con quelli di altre classi; i valori dell’intero istituto in termini di competenze acquisite (successo formativo) vengono assunti nel loro valore percentuale e confrontati con quelli di altri istituti della stessa area territoriale e, a livello più ampio, dell’intero territorio nazionale.Nella quotidianità tutti stiamo sperimentando da alcuni anni questa ossessione per la comparazione degli apprendimenti prodotti. Bisogna coordinarsi, definire obiettivi comuni, svolgere le programmazioni negli stessi tempi, adottare analoghe tipologie di verifica di tipo prevalentemente quantitativo al fine di vedere quale percentuale di alunni ha raggiunto ha raggiunto l’obiettivo x, precedentemente concordato. Inutile dire che questo tipo di prove comuni fanno della misurazione oggettiva il sale del processo di valutazione. Non riprenderò qui le osservazioni sulla fragilità e contraddittorietà di tale idea, perché basterebbe chiedersi se davvero valga la pena di spendere tante energie per raggiungere degli scopi così modesti. Questa prassi riduce la ricchezza della relazione insegnante-studente ad una misera e ripetitiva procedura tecnica producendo un effetto devastante di appiattimento e di svuotamento della passione per l’insegnamento che si nutre al contrario di ascolto, dubbio, improvvisazione…

A livello nazionale l’Istituto che in ultima analisi recepisce ed elabora i dati è l’Istituto Nazionale di Valutazione il cui compito dovrà essere sempre più quello di intervenire sul sistema in caso di cattivo funzionamento. Evidentemente l’obiettivo dichiarato di questa riorganizzazione centrata sulla valutazione della funzionalità del sistema è quello di migliorarne la qualità. Il termine qualità è tuttavia mutuato dal suo utilizzo nel campo dell’organizzazione aziendale. La funzione ideologica è presentata nella veste neutrale della tecnica di elaborazione di dati, forniti dalle scuole stesse, in vista di un obiettivo assunto assiomaticamente come interesse generale. In realtà la “qualità del sistema” non è altro che la ristrutturazione del sistema scolastico in senso aziendalistico. Che tale processo avvenga attraverso il coinvolgimento di coloro che sono oggetto di tale valutazione anziché affidarsi ad un controllo esterno costituisce forse una modalità soft di valutazione ma al tempo stesso ha la forza di assoggettare e mettere al lavoro tutto il mondo della scuola in funzione di un obiettivo imposto dall’esterno. Se questo è il nodo della problematica connessa all’istituzione dell’Istituto Nazionale di Valutazione diventa anche secondario – non per questo irrilevante – che la gestione venga affidata a esperti del mondo universitario o, come vorrebbe la Moratti, appaltata ad agenzie private.

Ciò che conta è l’effetto di radicale impoverimento delle relazioni all’interno delle scuole. Il problema di definire cosa, come e perché valutare viene sottratto alla riflessione di coloro che vi sono direttamente coinvolti e trasformato in una procedura tecnica cui tutti devono sottoporsi. E non si tratta unicamente di una minaccia burocratica, perché una volta definito cosa e come valutare è l’intero spazio della didattica che viene plasmato: studenti, insegnanti, ATA, (e i dirigenti stessi), tutti saranno sottoposti alla stessa idea di “Qualità”, in una travolgente omologazione dei comportamenti. Lo spazio pubblico della pluralità e del confronto sarà messo sotto sequestro. L’insegnamento ovviamente rimane il fulcro anche del mondo della scuola inteso come produzione di istruzione, ma nella forma del lavoro alla catena, controllato e organizzato da altri. Proprio questa sua persistente centralità tuttavia gli conferisce un enorme potenzialità di resistenza che dipende dalla forza dell’insubordinazione e, spesso, del semplice buon senso.Note

1 Cfr. il saggio La didattica modulare nella scuola dell’autonomia, la cui versione definitiva è a pagina 36 del presente volume.

2 Il punto di vista degli ultimi governi in merito alla necessità di un sistema integrato che assoggetti l’istruzione alle richieste del mercato è sostanzialmente univoco. Al riguardo nel Libro bianco di Maroni si sostiene apertamente che è compito dello stato garantire l’accumulazione del capitale correggendo la miopia dei singoli capitalisti in materia di investimenti sulla formazione: “Proprio perché ogni forma di formazione contiene elementi di capitale umano di tipo generale e quindi trasferibile da parte del lavoratore, da un’impresa ad un’altra, non sempre le imprese sono disposte ad effettuare gli investimenti che sarebbe invece utile fare, proprio per il timore di fare un investimento che sarebbe sfruttato da altri”. Rispetto alle politiche del governo precedente si lamenta solo che il processo sia stato realizzato in maniera insufficiente: “L’obiettivo di integrare le varie fasi in cui si sviluppa il processo di apprendimento, quella della formazione scolastica, quella della qualificazione professionale e quella dell’attività lavorativa, è stato proclamato come un obiettivo fondamentale da tutta la nuova legislazione; di fatto questa integrazione è ancora ben lontana dall’essere realizzata”.

3 Si potrebbe dire che compito della scuola è produrre soggettività flessibili atte al lavoro anche se il modello della scuola modulare rifiuta ogni riferimento alla soggettività, “Si valutano e certificano competenze, non persone”! E sembrerebbe anche un atteggiamento corretto, scevro da rischi moralistici, se non fosse che la persona, più che essere preservata, viene dissolta, frantumata in una molteplicità di atti strutturati in vista di finalità estranee.

4 Per una descrizione del percorso di strutturazione delle attività scolastiche come processo di produzione di un servizio, oltre al sito della Confindustria, si può consultare U. Varietti, L’autovalutazione di istituto reperibile sul sito del Ministero.

5 Come si è già detto questo è uno dei più evidenti trait d’union tra le proposte del centro-sinistra e quelle del centro-destra sulla politica scolastica. Rispetto a questa ricezione della domanda di competenze proveniente dal mercato del lavoro è importante rilevare che non necessariamente deve rimanere circoscritta alle richieste del presente, ma anzi deve anticipare la domanda futura. È a questo livello che l’imprenditorialità delle scuole sancita dall’autonomia può dispiegarsi pienamente come accaparramento di quote sempre più ampie di domanda di istruzione provenienti dalla società, soddisfacendo i bisogni delle famiglie e delle imprese. L’autonomia scolastica rappresenta la sconfitta di ogni pretesa di gestire il sistema dell’istruzione pubblica fuori dalle leggi vigenti del mercato.


Quaderno CESP n. 1. La scuola: prove di resistenza
Atti del seminario di auto-aggiornamento tenuto il 16 maggio 2002 presso l’ITIS Belluzzi di Bologna.
A cura di Gruppo Scuola del Bologna Social Forum e CESP – Centro Studi per la Scuola Pubblica, Bologna

Nessun commento

I commenti sono chiusi.